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Egemonia o prospettiva tra disuguaglianze e creatività indipendente

“Quando gli abusi vengono accolti con la sottomissione, il potere usurpatore non tarda a convertirli in legge.”
Malesherbes

Monopoli globali e mercificazione del pubblico: la scomparsa dell’autodeterminazione

Nella società industriale a capitalismo avanzato la produzione di beni è paradossalmente secondaria.
Ciò su cui si fonda il sistema economico è la produzione di consumatori ed è sulla base di questo assunto che, ad esempio, gli strumenti mediatici rivestono un ruolo centrale.
Ne consegue che il proprietario/gestore dei mezzi di produzione si allei o crei in prima persona i canali funzionali a creare bisogni, indirizzare le masse verso quei bisogni e soddisfare i bisogni indotti attraverso il consumo della merce che produce.

L’accelerazione di questi processi che si è avuta nell’epoca contemporanea, ha determinato un incolmabile squilibrio tra grandi produttori di beni e piccola e media imprenditoria.
L’accorpamento dei soggetti dominanti il mercato ha permesso inoltre di imporre un forte predominio nei mercati finanziari, che a loro volta condizionano le scelte di politica e istituzioni nazionali.

Lo scenario è quindi quello di classi dirigenti sovrastate dal potere dei grandi gruppi transnazionali e condizionate nelle scelte per le pressioni che essi possono esercitare.

Il panorama sociale e culturale generato da questo sistema economico è quasi totalmente subordinato ai modelli di consumo, che a loro volta influenzano i comportamenti, le relazioni, le progettazioni esistenziali e la stessa percezione del mondo, della vita, del valore della persona.
Le categorie tradizionali del lavoro e di ogni altro settore delle nostre società, hanno smarrito i riferimenti originari e hanno progressivamente visto evaporare la loro capacità identitaria.

Ne deriva un’architettura fortemente gerarchica in grado di produrre un vero e proprio ammaestramento delle masse, in cui ciascun individuo si sente integrato e solidale con il modello dominante e agisce in funzione del successo di quello stesso modello, considerandolo l’unico possibile, il più adeguato e quello che offre le soluzioni migliori.

Gli spazi per l’auto-determinazione vengono in tal modo eliminati, ma mentre nei regimi totalitari questo avveniva mediante la repressione e quindi creava nella persona il desiderio di svincolarsi/ribellarsi, nella società contemporanea gli individui vengono resi “felici” di essere dominati, controllati, instradati.

Questa condizione fa sì che, anche qualora si manifestino squilibri e malesseri, gli aggregati che si riconoscono in “categoria” scelgano metodi di ragionamento il più possibile conformi al sistema (l’unico che conoscono) e risoluzioni organiche ai vincoli che esso stabilisce (assenza di alternativa).
L’iniziativa diventa quindi solo burocratica e amministrativa, anche nei linguaggi, concentrata unicamente sull’ansioso (e giustificato) bisogno di denaro/reddito e perfettamente allineata ai processi repressivi nei confronti dei quali non produce alcun tipo di contraddizione. Anzi, li rafforza.

In questo quadro, gli unici traguardi che si raggiungono sono funzionali al sistema, evanescenti, parziali, temporanei. Una perenne provvisorietà esposta ai cambiamenti di governo e alle convenienze di parte.
Il nostro orizzonte è quindi contrassegnato da monopoli che massificano i bisogni, da persone trasformate in merce, con una progettazione subalterna ai vincoli imposti dai poteri.

Egemonia e precarietà nell’era delle oligarchie
Un’attenzione particolare, nell’esame dei contesti in oggetto, deve essere tuttavia dedicata ai dis-equilibri che si generano, e si autoalimentano, sul piano delle relazioni intercategoriali, nei rapporti con istituzioni e politica e all’interno del legame con la società rispetto a ruoli e funzioni che ne costituiscono l’appartenenza e ne influenzano la crescita.
Gli effetti di un’organizzazione istituita sul controllo e sul condizionamento hanno un impatto antropologico di portata gigantesca.

L’alterazione dei livelli di coscienza provoca il capovolgimento dei valori o quantomeno ne manipola il significato. In una perpetua variabilità di senso, soprattutto le moderne tecnologie assumono una centralità incontrastabile nel reperimento di riferimenti, obiettivi, risoluzioni e modelli. Ne scaturisce evidentemente una forte tendenza alla virtualizzazione delle esperienze e allo stimolo di un’indole rappresentativa che stimola l’individualismo, l’egoismo e altre cosiddette passioni tristi.

Sul piano dell’iniziativa politica, sindacale e professionale/artistica questo allestisce il teatro perfetto per dannose polarizzazioni e infernali antagonismi, alimentando divisioni e favorendo gli accordi circoscritti in ambiti verticistici e autoreferenziali.
Il prodotto di un clima così frastagliato si traduce in aumento costante delle disuguaglianze, restrizioni di diritti e crescita della precarietà e dell’insicurezza.

Il disagio diventa quindi una sorta di “normalità” con cui fare i conti ed è il terreno più fertile per inserire, da parte dei soggetti dominanti, ulteriori elementi di egemonia riservati a oligarchie sempre più ristrette.

Le realtà più esposte, rese fragili da leggi e assetti produttivi, vengono costrette a sperare di essere cooptate e introdotte per poter sopravvivere.
Bisogna purtroppo sottolineare che in molti casi si tratta di un epilogo da alcuni desiderato in relazione alla visione distorta e indotta dall’ammaestramento subito.
In assenza di una concreta cultura d’impresa, ma soprattutto di un pensiero alternativo, è pressoché impossibile comprendere che quella soluzione è in realtà un’illusione transitoria che porterà, nel medio termine, maggiori disagi e altri drammatici effetti.

Di fronte a noi si presenta quindi un ampio palcoscenico su cui si muovono figure prive di identità e di indirizzo.
Immerse in una continua rivalità, vagano spaventate e diffidenti verso un’inconsapevole scelta del/sul prossimo padrone.
Nel loro percorso si possono solo riconoscere in gelide ritualità che però seguono gli schemi dettati o insegnati dall’alto.
Si arriva al massimo a una ribalta effimera da postare sui profili per scegliere tra gara estenuante o guerra tra (sempre più) poveri.

La paura di esporsi fa il paio con l’abitudine alla sottomissione ed è curioso rilevare quanto queste due dinamiche possano essere accostate ai fenomeni narcisistici sempre più diffusi.
Se l’altro è una minaccia ci si allea con chi sa sottomettere e così facendo si aspira a far parte di un club privilegiato.
È il labirinto di scatole cinesi cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni (con una progressione esponenziale) che ha fatto solo il gioco dei pochi e ha creato una vasta area segnata dall’incertezza e dall’angoscia, con migliaia di persone deportate nelle chat/lager di Telegram e di Whatsapp.

Tutti questi squilibri, frutto di confusione intellettuale e deficit culturali, hanno lasciato campo aperto all’istituzione di veri e proprie stanze dei bottoni in cui, con la complicità di una pessima politica, si decidono le tendenze, si impongono i gusti e si eliminano i piccoli concorrenti.

Non c’è più spazio per l’iniziativa autonoma e ogni manifestazione poggiata sul desiderio di crescere viene soffocata da perversi artifici burocratici.
Ogni spinta verso la sana innovazione è repressa immediatamente, a volte all’interno dello stesso ambiente.
Ogni visione che estenda lo sguardo verso il lungo periodo è considerata un pericolo e mai una risorsa.

In questo scenario si è condannati a restare un “piccolo problema” degno solo di piccole soluzioni a breve scadenza. Sempre più ristrette e limitate nel tempo.

Creatività e comunità per un mercato oltre il mainstream
Malgrado la criminale desertificazione culturale che stiamo subendo, esistono fattori che testimoniano alcune criticità vissute dagli assetti di vertice.
Ne è prova la veemenza con cui stanno cercando di eliminare definitivamente quell’ampia area espressiva rappresentata dalle culture alternative e indipendenti.
Le autorità che sanno di essere solide non soffocano ma dialogano.
Non rinchiudono ma si confrontano. Non estirpano e lasciano che vengano coltivati nuovi terreni.

Quando un potere ricorre alla violenza e alla repressione è, comunque lo si veda, un segnale di paura o comunque di debolezza.

Certe leggi, prive di visione e di sostanza, pur favorendo alcuni privilegi, finiscono per destabilizzare il sistema che avrebbero dovuto rafforzare. Non sempre il mercato sopporta le concentrazioni troppo accentuate e anche i monopoli a volte divorano sé stessi. Soprattutto in un paese europeo in cui molte sue radici affondano nella terra buona della tradizione e dell’artigianato.
La scelta di affossare produzione ed espressione indipendente a favore di un’offerta essenzialmente commerciale, garantirebbe margini di successo in un contesto nel quale gli spettatori cinematografici raggiungessero un cospicuo numero di presenze.
Se però un film a budget elevato rischia di incassare il 2% del suo costo è chiaro che si tratti di un mercato destinato a fallire, comunque lo si voglia proteggere.
Da qui la virata su serietv-cinema commerciale-prodotto televisivo e il conseguente accorpamento forzato tra cinema e audiovisivo che altro non produrrà se non un indecifrabile soggetto ibrido, indefinito anche nel consumo e di imbarazzante qualità (INGANNO, un titolo e un perché).

I distributori più rilevanti, così come i circuiti multisala più diffusi, scelgono di assorbire un’unica tipologia di prodotto, potendo contare sui vantaggi mediatici, sulla ritualità degli eventi e sui popcorn.
Una valutazione legittima ed evidentemente ben ponderata vista anche la standardizzazione (costruzione del consumo) di un pubblico di riferimento.
Ma sicuramente non vincente nel lungo periodo a meno di confezionare un audience inanimato, con lo sguardo (e la vita) paralizzato sugli schermo di tv o smartphone.
Una popolazione in eterno lockdown esistenziale.

Da questo perimetro di mercato e perciò anche di fruizione di spazi, resta esclusa una gran quantità di cinefili che desiderano vivere il cinema in atmosfere diverse, in cui la vita abbia ancora la possibilità di essere percepita.
Altro elemento non secondario è che vengono eliminate le sale di prossimità che di queste atmosfere sono il teatro più appropriato.

Si apre quindi, per coloro che possono produrre opere rivolte a target diversi, una vasta prateria composta da opportunità tutt’altro che utopistiche.
Una filosofia che proponga di esplorare dimensioni non ordinarie – indipendenti, underground, sperimentali, politiche, si chiamino come si vuole – può diventare un elemento di stimolo che gradualmente andrebbe a ricreare un pubblico in un contesto di continuità e di crescita.

È indubbio che un cinema indipendente, capace di arrivare agli spettatori con chiavi più immediate e in un clima di maggiore complicità con il pubblico, ha tutte le carte in regola per essere protagonista nei percorsi aggregativi delle comunità. Lo dimostra il successo di molte iniziative autonome presenti in tutta Italia la cui esistenza, messa a sistema, assicurerebbe la creazione di un modello di mercato efficace e diffuso.
La suddetta complicità darebbe all’intera proposta uno specifico peso sociale e politico, tale da spingere le istituzioni a riconsiderare la sua importanza e rimodulare di conseguenza i livelli e le forme di sostegno.

Sulla base infine di questa identità riaffermata attraverso atti concreti e proficui, anche il ritmo produttivo/espressivo riacquisterebbe vigore attraendo con più facilità risorse locali e non ultimo l’interesse di nuovi finanziatori.
Va da sé che le fondamenta di questa nuova casa hanno bisogno di spirito costruttivo e di mentalità collaborativa, valori lontani da personalismi e superficialità che molto spesso hanno danneggiato il settore.
Resta inteso che non può esistere una definizione di obiettivi senza che sia stata raggiunta un’identità riconoscibile, vincolata a principi e valori che rendano nitida la distinzione tra un film autoriale e uno commerciale.

La realizzazione di un film indipendente implica l’adesione a un modo di ideare, assemblare e cooperare che qualifica, in una dimensione innanzitutto etica, ciascuna figura che lavora e appartiene al comparto.
Definirsi indipendenti significa aspirare a una specificità anche personale vissuta come un irrinunciabile tratto di sé, in un rapporto intenso e vissuto con le grandi sfide del presente.
Questo e nessun altro è il senso che determina la diversità di spessore e la specifica originalità di un’opera, e di un intero movimento, che concorre alla formazione del pubblico e all’alfabetizzazione cinematografica in un percorso complessivo di rigenerazione culturale e di condivisa prospettiva economica e sociale.

Stefano Pierpaoli
20/10/2024

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