Il brusio delle ossessioni che ci scambiamo a ritmo compulsivo, riempie di notifiche il nostro immaginario. Le voci incorporee ci sussurrano cosa guardare, cosa temere, di cosa ridere.
Corriamo a frotte nelle chiese ipermoderne ad accendere un cero illuminato a led e ci inchiniamo al vate passeggero, corriere di algoritmi e propaganda.
Siamo nel Nuovo Secolo di Ferro[1], infagottati nelle oscurità che amiamo frequentare o che ci vengono imposte dai ceppi dominanti. Contenti di quelle angosce contro cui non sappiamo opporre alcun pensiero. Illetterati della vita, analfabeti emotivi, utili idioti da vendere al mercato delle consolazioni. Prigionieri di illusioni semplificanti gonfie di disimpegno ed egoismo.
Come in quel tempo, temiamo le intelligenze e adoriamo il dogma ormai ridotto a oggetto di facile consumo. Liturgico ma non solenne. Ripetitivo e rassicurante. Amiamo l’immediato e confidiamo nelle divinità che possiamo filmare.
Alla fine di quel secolo successe qualcosa. Da Locke a Kant, passando per Voltaire e Montesquieu, avvenne il viaggio verso la ragione.
Dovremmo forse sperare che la verità, qualora una ne esista, sia tornata nei chiostri, custodita nei palazzi del potere e nei codici scritti in una lingua che non conosciamo più. Non cercheremo di comprendere perché siamo ottimisti. Né ce lo faremo spiegare perché abbiamo troppe paure.
Ci teniamo stretto il nostro medioevo di luci concesse e di soluzioni istantanee.
Cartesio e Galileo[2] oggi verrebbero annientati sui banchi dell’asilo. Ma se anche sopravvivessero, le loro voci non avrebbero peso alcuno.
Come nel Seicento, le mappe del mondo tornano incomplete. Quelle dell’anima, proibite. Il tempo non appartiene a nessuno: scandito da campane, riempito da obbedienze. Parlare è un rischio, garantire consenso è un dovere. La realtà è filtrata, distorta, sacralizzata: mai toccabile, mai interrogabile.
Siamo di nuovo lì, intrappolati in una tenebra perenne. Eppure ci sentiamo in un futuro che non sappiamo interpretare e che non siamo capaci di costruire e nemmeno di immaginare.
Il nostro alfabeto universale è un battito binario di slogan e di menzogne. La lettura della storia è un esercizio fluido e i bollettini delle guerre compaiono accanto al sedere della soubrette che ha milioni di follower. E sorride sempre in quello scintillio di denti che diventa la nuova religione emanata dagli organi d’informazione.
Scegliamo la censura in quanto ricetta preferita dal narcisismo sociale. Tutto ciò che è conoscenza equivale a eresia e la nostra ignoranza ci protegge dall’invadenza della ragione. Siamo azione e reazione. Siamo il prodotto di impulsi elementari.
1 – Il Seicento è stato definito come “il secolo di ferro”, con riferimento all’enorme numero di guerre e rivolte che devastarono l’Europa a cui vanno aggiunti, in quell’epoca, assolutismo, crisi economiche, oscurantismo e rifeudalizzazione.
2 – Cartesio e Galileo sono considerati precursori dell’Illuminismo: il primo per aver posto la ragione al centro del sapere, il secondo per aver introdotto il metodo scientifico come strumento di conoscenza del reale.
La soppressione del Tempo
Nel nostro tempo, il concetto stesso di tempo è andato in crisi. Non si tratta di una semplice distrazione cronologica, ma di una vera desertificazione temporale. Il passato non è negato: è banalizzato, svuotato di senso, manipolato come un fondo scenico da Instagram. Ogni evento è equivalente, ogni immagine intercambiabile. La memoria non è più una traccia che orienta, ma un archivio confuso di immagini a comando, privo di ordine, gerarchia, contesto.
Non comprendiamo più la storicità del pensiero, delle forme sociali, delle lotte e delle conquiste. Ci muoviamo su un piano piatto, senza profondità, dove l’oggi detta legge anche su ciò che fu.
In questo nuovo oscurantismo, la Storia – intesa come esercizio critico e consapevole – è percepita come un fardello inutile, da sostituire con l’istante, con la semplificazione emozionale, con lo scatto che colpisce.
Come in certe fasi pre-illuministiche, la ragione viene soppiantata dalla superstizione del presente. Non c’è più progresso ma solo reazione. Non c’è più comprensione ma solo impressione. E l’impossibilità di collocare sé stessi in un processo storico trasforma l’individuo in un relitto disancorato: apparentemente connesso a tutto, ma scollegato da ogni direzione.
Questa è forse la prima delle grandi amputazioni culturali del nostro tempo: senza tempo, non c’è memoria. La storia eravamo noi ma siamo stati trasformati in spettatori inconsapevoli, incapaci di esserne parte attiva.
Lo strangolamento del linguaggio
Il logos è conflittualità costruttiva, è confronto, è relazione. Stabilisce la qualità del nostro esistere e ne determina l’ampiezza. A un lessico ridotto corrisponde sempre una vita limitata. Una comunicazione di segni elementari ci condanna all’inerzia, all’eterno dormire dello sciocco, del frivolo, dell’assente.
Il linguaggio, un tempo strumento di emancipazione, è ora ridotto a refuso esistenziale, a superstizione fonetica, a codice tribale fatto di scarsi suoni.
Inseguiamo la viralità ai bordi dei vicoli tetri del Web, elemosinando contatti impalpabili.
L’efficacia retorica ha sostituito il pensiero e la grammatica è diventata un fastidio, un orpello da vecchi professori.
Le parole non servono più a costruire mondi, ma a rivendicare posizioni effimere che ci rendono isole separate dal mondo.
E come nella fase più plumbea dell’oscurantismo, la parola viene desacralizzata fino a diventare magia spuria
Nei bambini il linguaggio precede il pensiero e ne favorisce l’evoluzione. Nell’ultimo mezzo secolo siamo stati bravi: abbiamo scelto di non crescere. Dov’è il pensiero? In cosa siamo evoluti? Disinvolti e gaudenti, abbiamo tranciato le intelligenze con le cesoie dell’eterna gioventù spensierata.
La mia generazione, quella degli eterni ragazzi, è diventata sovrana di un tempo che non esiste più e per non ragionare su se stessa, ha rinunciato all’uso della parola.
Che brutto esempio per i nostri figli, costretti a sfogliare le immagini flaccide dei nostri tramonti disperati.
La realtà sintetica
C’era una volta il reale. Lo si toccava, lo si temeva, lo si abitava con disagio ma con rispetto. Oggi, invece, la realtà è diventata al massimo una vaga opinione, un contenuto personalizzabile come un filtro su una foto, un algoritmo che restituisce solo ciò che ci assomiglia. Viviamo dentro uno specchio che ci riflette all’infinito. Nessuna frizione, nessuna alterità. Solo il noi che volevamo vedere, replicato all’eccesso.
In questa nuova caverna digitale, le ombre non proiettano più un’origine: sono il fine. Il mondo è ciò che percepiamo, ma la percezione è distorta da ciò che vogliamo.
Non esiste più lo scontro con la durezza dei fatti, ma solo una danza di conferme reciproche. I fatti, del resto, non “esistono”: si rappresentano, si votano, si condividono, si commentano.
Come nel Seicento si temeva il mondo perché misterioso, oggi, tra mille paure, ne restiamo a distanza per non dover affrontare la sua complessità. E allora lo semplifichiamo, riducendolo fino a cancellarlo. Nessun contatto col reale che non sia mediato da una protesi digitale, da uno storytelling che renda la realtà digeribile, ammiccante, vendibile. Il reale non è più un luogo da esplorare, ma un’interfaccia da manipolare.
Siamo corpi astratti che rimbalzano tra mezze opinioni, percezioni, flussi.
La luce della conoscenza
Siamo imprigionati ma stiamo cominciando ad avvertire il peso delle tante catene invisibili che ci tormentano.
Per decenni non abbiamo fatto altro che fuggire dal resto, dall’altro, da noi stessi e abbiamo sprecato almeno 3 generazioni.
Siamo vittime di un’ignoranza nevrotica e corrosiva che è diventata normalità assillante. La caverna che ci ospita è diventata la nostra casa, ed è nell’oscurità che abbiamo deciso di vivere, accettando la miseria delle ombre.
Ma questo non è il nostro destino finale. Non può esserlo. La via d’uscita è ardua, perché ci pone di fronte a un dolore più cosciente. Un patimento diverso da quelli che abbiamo deciso di ignorare per tanto tempo.
La conoscenza non è un balsamo, ma una sfida. È il cammino lungo e spigoloso verso una ragione che oggi sembra ormai quasi dimenticata, ma che deve essere ripresa, in tutta la sua ferocia e necessità.
Siamo chiamati a rompere il silenzio dell’ignoranza e ad affrontare la lotta con la nostra stessa realtà. Con una realtà che, se non riconquistata, continuerà a divorare ciò che resta della nostra capacità di pensare e di agire.
Questa è la nostra unica speranza: il cammino della ragione, tra le ombre, attraverso la nebbia. Senza scorciatoie. Ma con la consapevolezza che il cammino è il nostro destino, e che ogni passo verso la luce è una sfida senza tregua. Il resto è solo declino.
Il nuovo Illuminismo, se mai prenderà corpo, dovrà partire da qui: dalla riconquista del reale, con tutta la sua fatica, la sua resistenza, la sua imperfezione. Solo nel dolore dell’incontro con ciò che è altro da noi potremo tornare a capire chi siamo.
Stefano Pierpaoli
16 aprile 2025
L’allarme in dati
Sono indici che stanno crescendo in modo esponenziale e che impongono a tutti noi una presa di posizione netta e inequivocabile.
Senza fiaccolate, piazzate o raccolte di firme. Serve un intervento concreto. Non una simulazione di impegno.
Dati sull’Analfabetismo Funzionale e le Competenze
I numeri che seguono non sono semplici statistiche: sono la radiografia impietosa di un’umanità smarrita, disorientata, resa fragile nei suoi strumenti di interpretazione del mondo.
Fotografano un’emergenza drammatica che investe la struttura stessa dello sviluppo, la coesione delle comunità, la progettazione esistenziale dei singoli e la possibilità di un’armonia sociale reale.
Ci rivelano una popolazione spesso incapace di comprendere un testo complesso, di orientarsi in un’informazione pluralistica, di gestire le proprie emozioni in modo equilibrato, di accedere a strumenti digitali in modo critico e consapevole. Tutto questo non è soltanto un problema educativo: è un problema politico, antropologico, democratico.
Il punto più spinoso e forse più inconfessabile riguarda infatti il valore stesso del suffragio universale in un contesto come questo.
Se il voto è – nella sua essenza – la massima espressione della partecipazione cosciente di un cittadino informato e consapevole, cosa accade quando a votare è una società che ha smarrito l’alfabeto della comprensione, che non padroneggia più il senso del tempo, del linguaggio, della realtà?
Una democrazia resta tale quando le sue fondamenta culturali sono solide.
Quando invece queste si sgretolano, anche il meccanismo elettorale diventa una finzione: la volontà popolare smette di essere un atto di autodeterminazione e si trasforma in un riflesso condizionato, in una delega fondata sul pregiudizio, sul marketing, sulla paura.
La qualità della classe dirigente eletta, in un tale contesto, non può che riflettere le stesse debolezze: una classe politica inadeguata, selezionata da una massa inconsapevole, genera un ciclo vizioso che mina le basi stesse della democrazia.
Non si tratta di negare il principio dell’universalità del voto, ma di restaurarne il senso profondo, che è prima di tutto culturale.
Senza la rinascita di un’alfabetizzazione diffusa – testuale, affettiva, razionale – ogni modello democratico sarà solo un involucro svuotato, esposto alle derive dell’autoritarismo e della propaganda.
Analfabetismo funzionale in Italia
- Literacy (comprensione del testo): il 35% degli adulti italiani tra i 16 e i 65 anni si colloca al livello 1 o inferiore, contro una media OCSE del 26%. Questo livello indica la capacità di comprendere solo testi molto semplici e strutturati, con difficoltà nell’estrarre informazioni anche basilari.
- Numeracy (abilità numeriche): il 35% degli italiani è al livello 1 o inferiore, rispetto a una media OCSE del 26%. Ciò significa che molti adulti riescono a svolgere solo calcoli di base e hanno difficoltà con compiti che richiedono più passaggi.
- Problem solving adattivo: solo lo 0,9% degli italiani raggiunge i livelli più alti, contro una media OCSE del 5%. Il punteggio medio italiano è di 231, ben al di sotto della media OCSE di 251.
💻 Competenze digitali
Secondo l’ultimo rapporto PIAAC-OCSE, l’Italia presenta un significativo ritardo nelle competenze digitali:
- Il 46% degli adulti italiani non è in grado di risolvere problemi complessi in ambienti digitali, rispetto a una media OCSE del 29,3%.
- Solo il 5,4% degli italiani raggiunge elevati livelli di competenza in literacy, contro una media OCSE dell’11,6%.
Attualmente, non esistono dati ufficiali specifici sull’intelligenza emotiva e affettiva. Tuttavia, alcuni studi e ricerche indicano una crescente difficoltà nella gestione delle emozioni e delle relazioni interpersonali, soprattutto tra i giovani. Questo fenomeno è spesso attribuito all’uso intensivo dei media digitali e alla ridotta interazione sociale diretta.