Ineluttabilità della lotta di classe
La pandemia che sta colpendo il mondo potrebbe essere la più grande catastrofe della storia.
Tuttavia, in una società che può contare su enormi risorse tecnologiche e su una capacità di interconnessione rapida e precisa, la scienza potrà offrire nel breve periodo risposte e soluzioni capaci di contrastare l’avanzata del virus.
Non si tratta di una previsione ottimistica. Nel drammatico momento che stiamo vivendo l’ottimismo sarebbe un errore imperdonabile. Questo sentimento ha già svolto il suo compito settimane fa, quando alle notizie provenienti dalla Cina i meravigliosi ottimisti pensavano: “vedrai che qui non arriva”.
Dai balconi e dalle finestre arrivano musiche e canti. Ovunque si legge che andrà tutto bene. Tutti ci auguriamo che quei suoni euforici e che la visione fiduciosa troveranno l’epilogo che vogliono rappresentare.
Il coronavirus lascerà un panorama profondamente diverso da quello che conoscevamo. Da quello che vogliamo immaginare all’indomani di questa tremenda esperienza.
Non si tratterà soltanto delle macerie economiche prodotte da crolli finanziari e da giganteschi disavanzi pubblici. Saranno macerie interiori, ferite nelle nostre anime e incertezze inedite per la nostra cultura.

Non tutto andrà così bene e ignorare uno scenario doloroso non è la scelta migliore.
Non lo è soprattutto per le categorie più deboli ed esposte al disagio, alla marginalità, all’indigenza.
Non lo è perché da troppi anni questa moltitudine di persone è stata abbandonata a se stessa.
Non lo è perché è mancata una visione politica che riducesse le ingiustizie sociali e le disuguaglianze.

C’è chi dice che parlare di classi sociali fa parte di un codice superato ma non è così. Si è certamente modificata la relazione tra appartenenza di classe e identità sociale e l’assenza di crescita e la progressiva alienazione subita dalla stragrande maggioranza degli individui hanno determinato la formazione di un tessuto generale composto da persone annebbiate e subalterne. In questo contesto le nuove classi sociali si sono disposte nel reticolato sociale raggruppandosi in funzione di aggregati omogenei. L’idea di Rete, tanto cara ai post-democratici, si è imposta come strumento principale di artefatta condivisione, di creazione di false consapevolezze, di simulata iniziativa movimentistica o politica.
Le nuove classi sociali sono costituite di fatto da circuiti consolatori finalizzati a confermare l’appartenenza a un branco e un’identità creata e gestita da altri.
L’appartenenza risulta legata a rituali e fenomeni partecipativi molto elementari. Fenomeni che allo squallore intellettuale e alla miseria morale uniscono molto spesso e malauguratamente la parodia dell’impegno sociale finendo nelle fauci del crimine, della finanza e degli assetti dominanti. In pratica andando a rinforzare quello che dicono di voler contrastare.
L’identità individuale è invece la fedele proiezione del caos ideologico che scaturisce da questa assenza di riferimenti e l’ espressione collettivizzata di questa presunta identità è un continuo rave party fatto di idee confuse e di perdita di autonomia.
L’agglomerato umano che si determina si manifesta quindi attraverso categorie ben definite. Una definizione facilmente producibile per la povertà culturale che ne caratterizza l’esistenza e per la patologica tendenza delle masse postmoderne a elemosinare la rappresentazione di se stesse. Come mandrie in cerca di cibo si spostano all’unisono. I padroni di quel cibo sono col0ro che controllano le masse.

Ma che c’entra il Covid-19?
Questa variabile inattesa fa saltare il sistema. I controllori che creano i bisogni non possono più esercitare condizionamenti. La mandria non trova più il cibo e gli aggregati omogenei che si riunivano sulla base di impulsi stordenti sono costretti a crearsi una consapevolezza nuova basata su esigenze impellenti.
La questione centrale che riguarda l’oggi è quella di una popolazione troppo abituata a rappresentarsi nella sola dimensione del presente. Quindi le manifestazioni di euforia canora e le certezze su salvifiche soluzioni ormai prossime (andrà tutto bene), sono parte ancora dell’immediato (non mediato) riflesso a cui sono stati addestrati.
Dispiace per i diffusori dell’hashtag #andràtuttobene ma non esistono avvisaglie che finisca così.
Il segnale che arriva dalla pandemia è potente ed è ricco di significati. Ci fa ammalare, ci costringe in casa, ci allontana gli uni dagli altri. Come l’inquinamento, come la schiavitù dei media, come gli egoismi che attraversano la nostra società. Tutte disgrazie ben note.
La solitudine e il silenzio che potremmo avvertire dentro di noi e intorno a noi dovrebbero spingerci all’introspezione, alla ricerca coraggiosa nelle nostre coscienze e al desiderio di nuove prospettive.

Ma sappiamo ancora riconoscere i nostri sentimenti, esplorare quell’universo ignoto della nostra interiorità e trovare una strada ancora tutta da costruire per creare rinnovate prospettive? O abbiamo smarrito definitivamente il vero sentire, il vero emozionarci e il vero costruire relegandolo a sbrigativa rappresentazione da social e delegando le scelte che più ci riguardavano a classi dirigenti incapaci e criminali?
Non sappiamo se il recupero di centralità da parte dell’individuo sarà la sfida più grande che abbiamo di fronte. Di certo sarà la prima da sostenere perché il crollo economico che dovremo affrontare avrà bisogno di donne e di uomini che sanno parlare con se stessi prima di scrivere compulsivamente un post. Che sanno specchiarsi e riconoscersi, perché così facendo riconosceranno l’altro in quanto alleato in una guerra che non ha precedenti.

Una guerra che probabilmente farà miliardi di prigionieri perché ci svelerà con evidenza i muri delle prigioni in cui abbiamo vissuto.

Stefano Pierpaoli
18 MARZO 2020

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