I direttoriali del mondo dei capi
La crisi delle democrazie non è un punto di vista
La polarizzazione degli opposti schieramenti, il collasso identitario dei partiti, la crisi della rappresentanza popolare, la nebulosità sindacale, le oligarchie che controllano i parlamentari sono tutte realtà con cui facciamo i conti nostro malgrado.
I corpi intermedi di base, quelli che dovrebbero essere a noi più vicini, hanno fatalmente introiettato le regole di questo Titanic e instaurato con i piani più alti una relazione simbiotica.
Le classi dirigenti possono quindi fare a meno di considerare l’effetto devastante di alcune loro decisioni e soprattutto hanno il potere di agire sulla base del solo interesse dei soggetti più influenti.
Il lungo silenzio che ha preceduto l’emanazione della “scandalosa riforma”, è stato il sintomo più rilevante di una patologia, ormai cronica, che affligge la nostra società,
Lo “zittismo” che ha avvolto la fase di preparazione al decreto, corrisponde fedelmente al tempo necessario per garantire gli assetti di controllo e autoeleggersi nel club dei fortunati.
Per fortuna (si fa per dire), dal cilindro dei dominanti non è uscito un simpatico coniglietto. È spuntato un serpente velenoso e insaziabile che ha svelato, nel giro di un minuto, le ipocrisie dei tanti incantatori già pronti a gestire l’emergenza. Da una parte è suonato il piffero delle fasulle promesse di sviluppo e dall’altra ha echeggiato la protesta artefatta di chi già aveva stretto patti e stabilito compromessi.
Perché non è uscito fuori nulla?
La risposta è nota a tutti: il confronto avveniva a porte chiuse tra soggetti che dovevano difendere le loro posizioni di rendita e tra circoletti di persone che con quella rendita ci vivono bene.
Chi ne fa le spese è dolorosamente evidente: lavoratori delle troupe, giovani e piccoli produttori, artisti finiti nella precarietà, professionisti fluttuanti nel vuoto.
Le ritualità legate alle autorappresentazioni e agli sfogatoi ci spingono in un recinto di insicurezza, precarietà e soprattutto paura. E il panico da sempre spinge l’individuo a cercare un salvatore o anche solo un capo sotto il quale provare a proteggersi.
Però quel serpente ci ha messo di fronte a un dato evidente e incontestabile. Ha di fatto creato i presupposti per produrre una frattura e ha mostrato la via d’uscita dai rituali e perfino dalle paure.
I capi detestano le fratture perché la storia, il progresso e l’emancipazione sono andate avanti solo grazie a fratture che portavano al nuovo, rigenerando le coscienze e creando prospettive.
I capi non vogliono sentire parlare di valori perché le buone virtù alimentano i terreni fertili, fuori dal loro controllo, dove cresce una vegetazione brillante e spontanea. Una natura indipendente.
I capi non sopportano gli impulsi “fuori schema”, perché rischiano di intaccare il conformismo e la subalternità e, per il club dei fortunati, questo sarebbe un fatto inaccettabile.
Peccato per loro che ormai il serpente è di fronte ai nostri occhi e siamo tutti stanchi dei pifferai.
Le contraddizioni di sistema sono venute tutte a galla e non basterà la riedizione di un dibattito sempre uguale a sé stesso che in tutti questi anni ha generato repressione espressiva, depotenziamento produttivo e impoverimento salariale.
Il re sembra nudo quanto basta per avvicinarci rapidamente a una riforma che restituisca diritti e prospettiva.
Stefano Pierpaoli
11/10/2024