Romicidio volontario…e premeditato

Il titolo può trarre in inganno. Si allude a Roma o magari ai Rom mai così bersagliati dai sospetti? E se si andasse avanti col pensiero, sarà colpa di una parte o dell’altra? Chi è insomma il vero colpevole dell’intrigo romano che porterà in cella alcune decine di persone? Penso alle telecamere. A quello strumento insulso che viene scambiato con la sicurezza. E penso alle divise che, per carità, fanno quasi ogni giorno quasi tutto il loro dovere. E ancora quasi. Ma quale sicurezza può provenire dal percepire la spia elettronica o il controllore armato? Si tratta di una garanzia che sa di persuasione, quindi può diventare in breve un’illusione e alla fine un inghippo. Ma che c’entra con una storia che spinge avanti la Banda della Magliana (la Banda che non c’era), sobbalza sui fascisti, rimbomba sull’ex sindaco e rincula perfino su qualche funzionario (non politico) di sponda opposta? Beh, in parte c’entra con l’inghippo, forse anche con la persuasione e con la garanzia che si tramuta in illusione. Ma allora, la sicurezza di cui sopra? È la serenità del forse predestinato a morire di assassinio, che si sente in quella botte di ferro costruita sul consenso, in un suk di patti segreti, che funziona con l’occhio vigile della sentinella virtuale. Oppure è l’argine vestito da poliziotto che tiene a distanza il presunto sicario. Ma che civiltà è mai questa? Controllo e repressione. Consenso e compromesso. Non si arriva lontano. Non più lontano almeno di Regina Coeli e di qualche clamoroso scivolone dalle parti di alcune compartecipate. Certo che quest’ultimo termine, compartecipata, risuona un po’ troppo spesso. Come quello delle fondazioni e dei criteri di nomina. Insomma, c’è una forte tendenza alla compartecipazione e in quel girone infernale che così si alimenta va a finire che non riconosciamo più il killer e nemmeno il morto. No, non parlavo dei Rom. Parlavo del morto. Anzi, della morta. E a dire il vero non la riconosco più nemmeno io. Povera Roma. SteP 2 dicembre 2014

Estate Romana: la ricaduta sul territorio

È finita già da un po’ ma i suoi effetti si protraggono tuttora. L’Estate Romana, grande manifestazione che si svolge ogni anno nella Capitale, lascia le sue macerie a deturpare l’ambiente del Parco di Centocelle. Non è bastato un bilancio complessivamente fallimentare per sancirne la vuotezza culturale e l’assenza di visione di prospettiva. Lo stato di abbandono che domina nell’area verde che costeggia la Casilina sembra il sugello finale, posto in bella mostra, per una delle tante mortificanti iniziative che sono andate in scena. La mondezza che giace indisturbata su quei prati, è lo stesso pattume intellettuale che alimenta le scelte dell’Amministrazione romana da oltre un decennio. È il simbolo della de-generazione che quasi ogni evento proposto a Roma porta con sé e accresce. E-vento, dove quella “e” risulta solo privativa rispetto al vento buono che dovrebbe alimentare l’intervento culturale. Siamo morti di eventi. Grandi e piccoli e soprattutto inutili. Non si poteva trovare una sintesi migliore di quelle poltrone che marciscono tra i vialetti del parco per far capire a tutti qual è la ricaduta sul territorio di tante iniziative culturali. Dal “organizzamo n’evento” al “partecipamo ar bando” c’è tutto un pullulare di piccole trattative in cui la cultura resta ai margini e la Città entra al massimo come contorno allo spazio ottenuto. Roma, la donatrice di organi col consenso di terzi che la conoscono per sentito dire, perché anni fa, hanno imparato a scuola che è la Città Eterna e poi, nei Palazzi del potere e nei salotti fine impero, se la sono spartita. La discarica prodotta dal Roma Vintage, quei rifiuti che giacciono nel vecchio aeroporto di Roma che proprio lì sorgeva, ci descrivono impietosamente che viviamo in una città non amata, non rispettata e in cui non esistono idee per riqualificarla e renderla migliore. A ripulirla ci penseranno i boss della mala che stanno comprando le periferie? Probabile. Però che schifo e che rabbia lasciarsela rubare senza poter fare niente, osservando i baroni che ti bloccano se vuoi fare qualcosa di buono e che parlano di una città che non conoscono. Stefano Pierpaoli 8 ottobre 2014

Piovono eventi

Da un anno mi sento chiedere: “Qual è l’evento che stai proponendo?”. Ah…l’evento. Roma è morta di eventi, di piccoli e grandi eventi. Mi vergognerei a proporne un altro. L’ennesimo inutile appuntamento fine a se stesso.Rassegne, festival (tantissimi festival) e sagre. “’A Festa der Cinema…’A Notte Bbbianca…’A Festa de la Musica. Si fa una festa quando si festeggia qualcosa, ma a Roma, in un’eccellenza tra le città del mondo, cos’altro dovremmo celebrare se non il degrado e la degenerazione? Spuntano fuori bandi per eventi. L’ultimo è stato protocollato e pubblicato dal Comune in data 15 settembre. La scadenza è per il 3 ottobre. Gli “eventi” inizieranno a novembre. 18 giorni (diciotto giorni) per partorire un progetto culturale per Roma, 4 milioni di abitanti, centrale artistica e culturale senza pari nel mondo. 18 giorni per presentare idee capaci di arginare il dissesto e la disperazione romana. Che paroloni, “dissesto” e “disperazione” accostati alla capitale d’Italia. Che esagerazione. Che pessimismo. Sarò mica tra i gufi nazionali? Eh no. Perché ci sarebbe da aggiungere quella questione marginale che riguarda la criminalità organizzata che sta ultimando il suo lavoro, nelle Periferie come al Centro. Un anno ancora e avrà comprato quasi tutto, e allora i conti, i permessi e le autorizzazione dovremo chiederli anche a loro (tuttavia esiste già l’impressione di farlo da un po’). Forse sarebbe meglio considerare questo quadro di riferimento invece di divertirci al gioco del bando. Lo so, il bando costa poco, ne accontenta tanti e nell’anno delle grandi piogge ci sta pure che coli dal cielo qualche finanziamento inatteso. Ma purtroppo si tratta di un cielo fosco e minaccioso. ‘O Sistema Romano, figlio del “Modello Romano”, a breve diventerà il regno di guappi e ‘ndrine. E se qualche coglione (perché altro termine non c’è) dice che non è così e continua a voltarsi dall’altra parte, allora già è parte di quel sistema. SteP 24 settembre 2014

Mai nessuno mai

Il Conte, il Puma e il finanziamento privato Ipotesi 1: Conte è il migliore degli allenatori possibili e per ingaggiarlo si è dovuto ricorrere al sostegno dello sponsor privato (Puma). Ipotesi 2: Conte è un bidone come allenatore e come immagine ma dato che c’era lo sponsor privato (sempre Puma) che pagava lo abbiamo preso. Ipotesi 3: a noi di Conte non ce ne frega niente. Però lo spunto che ci offre il suo ingaggio miliardario in compartecipazione ci aiuta a ragionare su una questione che riguarda anche la nostra politica. I tifosi a favore della fine del finanziamento pubblico ai partiti hanno spinto affinché venisse determinato un nuovo modello di approvvigionamento finanziario e altra strada non c’era se non quella del finanziamento “privato”. Alcune chiavi di lettura ce le offre l’allenatore miliardario quando precisa, con zelo maniacale, che nessuno mai potrà influenzare le sue scelte. Un qualsiasi sportivo dovrebbe chiedersi: ma perché sottolinearlo? Non è forse implicito, nella sua missione, convocare e far giocare i calciatori migliori nel miglior modo possibile? Ma a noi di Conte non ce ne frega niente e trasportiamo questo interrogativo, peraltro legittimo, nel campo della politica e della gestione del progetto  elaborato nell’interesse collettivo sulla base ideologica o programmatica dell’appartenenza a un’idea (mi si perdoni la sintesi provocatoria). Immaginare un segretario di partito che debba rimarcare la propria indipendenza rispetto “all’ufficiale pagatore” è già di per sé un fatto inquietante, ma in uno scenario che stimola sospetti (ideologie e interesse collettivo sono morti da quel dì) e che fa emergere ripetute contraddizioni, diventa assai arduo districarsi dal dubbio feroce che ci attanaglia quando si presente il salvatore della patria designato. Non era meglio dargli un lecito obolo ed entrare nei processi politici? Eh…lo so, per entrare in quei processi bisogna stare a tavola e aver diritto a una fetta di torta, mentre in Italia bisogna restare tifosi, dell’Italia, di Conte e, perché no, dello sponsor. Step 20/08/2014

Gli autogol d’autore

Su questo sito è stata più volte manifestata la perplessità sull’equazione: più soldi = più cultura. In un sistema confuso e ormai fallito è inutile immettere somme anche consistenti. Evaporerebbero lasciando solo qualche traccia nebulosa a vantaggio delle solite entità.La recente legge sulla tassazione dei digital device, pur proponendo una soluzione invocata da più parti,  non sembra procedere verso quella pacificazione tra popolazione allo stremo economico e categoria degli autori che comunemente viene assorbita nell’ambito più generale dello spettacolo e simili. Se infatti introduce una regolamentazione indispensabile a favore del diritto d’autore non si preoccupa di affiancare all’appesantimento fiscale nessuna norma che stimoli il consumo culturale, in particolare quello che si svolge sul territorio. Sarebbe stato forse più adeguato abbinare a questa mini stangata (ma pur sempre stangata e di questi tempi fa male) forme di alleggerimento fiscale e sostanziose campagne promozionali a favore degli spettatori, e di rimando agli addetti ai lavori, affinchè musica, film e quant’altro tornassero a essere seguiti nei luoghi tradizionali anziché su I-Pad e smartphone. Non entriamo sui temi più specifici e legali che alimentano il bisticcio tra SIAE e associazioni di consumatori sulla Device-Tax, ma è possibile che se il legislatore e le parti in causa avessero operato con più saggezza ed equilibrio, anche questa diatriba sarebbe avvenuta con toni meno accesi. Un altro fatto per così dire “curioso” è successo ieri sera qui a Roma. La prima della Bohème, a Caracalla, firmata da Davide Livermore è andata scena con l’accompagnamento del solo pianoforte. Il sovrintendente Fuortes, dopo mezz’ora di ritardo privo di informazioni per il pubblico, ha dichiarato dal palco di “voler rispettare il diritto di sciopero” e ha annunciato una singolare offerta speciale per chi sarebbe rimasto: il rimborso del 50% del biglietto. Per tutti gli altri, gli indolenti, gli irritati e i fondamentalisti che hanno preferito andarsene (del resto pioveva e faceva anche freddo) la restituzione totale del costo dell’ingresso. Senza dubbio la vertenza che riguarda i lavoratori della Fondazione Teatro dell’Opera presenta connotati che possono condurre all’esasperazione, ma ai bravissimi orchestrali che hanno scioperato vogliamo rivolgere una domanda: non sarebbe stato più efficace fare una provocazione e rinunciare al compenso, pretendendo di rimborsare a tutti il biglietto e suonare, partecipare e arricchire di un significato in più questo appuntamento? Il pubblico, forse qualcuno a volte non ci pensa, è formato da donne e uomini che possono condividere l’evento artistico ma anche le lotte che si fanno perché esso arrivi e continui ad arrivare in scena. Anche questo è promozione culturale. Anche questo contribuisce a ricostruire il rapporto perduto tra offerta culturale e popolazione. Questa è la partita più complessa che deve essere vinta al più presto. Cominciando con l’evitare gli autogol. Step 15 luglio 2014

Operare con lentezza…e perdere il treno

Il film fresco di Oscar passa in TV e una parte del mondo del cinema si ribella. Sono soprattutto gli esercenti che protestano, lamentando, giustamente, il mancato incasso per l’ulteriore uscita in sala della pellicola. Sull’onda del nuovo successo avrebbero infatti potuto godere di un poderoso lancio promozionale che ha finito per attribuire cifre record al passaggio televisivo. Appare evidente la scelta molto politica di Mediaset di inviare un messaggio tassativo (tirannico) a tutti gli operatori del settore che da anni si azzuffano, inutilmente, sulla questione delle finestre d’uscita dei film. Il senso di questa scelta è quello di determinare imperiosamente e dall’alto, un nuovo equilibrio nella diffusione dei titoli. Uscite anticipate in televisione e “dove si arriva si mette il segno”. L’epilogo del contenzioso era chiaro da tempo. Era scontato che i motivi degli esercenti si sarebbero infranti contro i diktat delle grandi potenze del cinema. Le intenzioni di quest’ultimi erano abbastanza manifeste. Fino a 2 anni fa sarebbe stato possibile mettere in moto “processi altri” per garantire più forza, non solo contrattuale, agli spazi di proiezione, proprio in vista di questo snodo ineluttabile. C’è da temere che sia ormai troppo tardi per rimettere in moto le iniziative di 3-4 anni orsono. Ora servono nuove idee e nuovi strumenti, comunque possibili, per rilanciare un comparto sempre più in crisi. Il problema non era la digitalizzazione delle sale, doverosa, irrimandabile e anch’essa in pesante ritardo, ma era l’impianto intellettuale su cui sviluppare i progetti  di rinnovamento. Occorreva una visione alta degli scenari futuri e non la solita disputa sui finanziamenti a pioggia che – anche questo era chiaro – non sarebbero stati ingenti né sufficienti. Lo stesso discorso andrebbe fatto per altri aspetti del dibattito sul rilancio del cinema in Italia. Il treno per alcune riforme che andavano fatte è passato. I ritmi degenerativi della nostra società sono incalzanti e rapidi. Chi scrive aveva proposto di istituire tavoli di confronto facendoli partire dal Festival di Roma 2012. Hanno strangolato e fatto morire quella proposta e dopo un anno cosa hanno fatto? Hanno istituito tavoli di confronto facendoli partire dal Festival di Roma. Però dopo 365 giorni. Un anno buttato al vento pesa come un macigno sulle possibilità di riuscita di un’impresa e sul risultato di questi nuovi tavoli, organizzati dall’alto, non se ne ha per ora notizia. L’assenza di velocità è un difetto distruttivo come la mancanza di democrazia. Le proposte di ieri, rubate e goffamente corrette, non sono più attuabili oggi. Per salvaguardare i privilegi dei “pochi” si arriva rovinosamente in ritardo e il prezzo verrà pagato come sempre dai “tanti”. Arriviamo tardi, un po’ come quel film di grande successo che descrive la fine degli anni ’80 (feste, trenini, etc.) ed esce quasi 30 anni dopo. Racconta la pioggia di ieri quando siamo ormai con il fango fino alle ginocchia. SteP 6 marzo 2014