Virus, Narciso, Potere
Quel tutto che doveva andare bene era in effetti difficile da interpretare. Che saremmo poi diventati tutti migliori, a dire il vero, non era così importante. Eravamo già migliori, no? Sicuramente migliori nel restare beatamente a distanza da tutto. Si potrebbe dire lontano dalla realtà ma quella cosa lì non esiste da un sacco di tempo. A guardare bene, malgrado il gran baccano, è successo poco o niente. Il malessere di prima ha trovato una stanza protetta in cui per fortuna si può continuare a correre da una distrazione all’altra. La paura ha soltanto cambiato vestito e per le strade della movida ci si sballa lo stesso anche con un abito diverso. La rabbia sorda dei nostri demoni, invece continua a covare. Mascherata da violenza o da depressione. Da arroganza o alienazione. Bella però la festa dei monopattini e degli aperitivi. Così generosa di stimoli che stordiscono, di droghe divertenti, di prodotti di Amazon. Allo specchio utile per il nostro ego possiamo appiccicare l’immagine più adatta. La tristezza di Narciso, la paura di Narciso e la rabbia di Narciso diventano tramonti, cani, rane e tartarughe. Ogni mattina e ogni sera contiamo i “mi piace” e colmiamo i vuoti e riusciamo a pensare di essere sfuggiti. È tutto così facile e immediato. Siamo persone fortunate. Ci troviamo tutto pronto e possiamo non fare nulla per arrivare alla pace. La società dei consumi ce la regala volentieri. Premurosa e solerte non si ferma mai. Riesce a garantirci sempre nuovi stimoli, desideri incessanti e milioni di vie d’uscita. Com’è buona la società dei consumi. Non è mai stanca e, pur arrancando, fa di tutto per farci scoprire nuovi bisogni. Lei li crea e noi dobbiamo solo corrergli dietro per conquistare la soddisfazione. Che magnifica giostra senza fine. La cenetta, la spiaggia, la musica dal vivo. Se dobbiamo restare chiusi in casa abbiamo al nostro servizio migliaia di ore piene di serie tv. E poi gli impareggiabili social, dove siamo noi i veri protagonisti. Fa davvero miracoli la società dei consumi. Se si dovesse fermare, per noi tutti sarebbe la fine. Ce lo stanno spiegando bene e noi dobbiamo fare il possibile perché questo non avvenga. Dobbiamo continuare a riempire ogni chiosco di questo luccicante luna park. Oh sì, sarebbe davvero un dramma se il nostro parco giochi venisse chiuso. Ma non succederà e andrà tutto bene. Anche perché altrimenti su quello specchio troveremmo quelle cose brutte che si chiamano disperazione, furore, e panico. Narciso non perdona. Potere lo sa bene. I padroni della giostra ci mostrano ogni giorno di cosa dobbiamo aver paura e sanno come risolvere la rabbia e lo sconforto. Se Virus dovesse chiuderci in casa non dovremo far altro che aspettare e usare bene quello specchio che ci fa diventare migliori in tre secondi. Siamo macchine che devono funzionare bene. A noi quello specchio piace. Ti piace. Mi piace. Ti piaccio. Mi piaccio. Ti metto il video in cui agito le maracas così ridiamo insieme. Mandami un sorriso e ti regalerò un cuore. La società dei consumi ha fame e i feriti da Narciso sono i clienti perfetti. Corrono al bar per l’aperitivo, si “fanno” immersi nella movida, postano come mitragliatrici e sfogano la rabbia al banco del tirassegno. Stimoli e distrazioni. Stimoli e distrazioni. E violenza, per un tradimento bambino mai risolto. Di quando non esisteva ancora uno smartphone in cui affogare per ore a dieci anni e già diventare prodotti offerti al Signor Potere. Al chiosco di quel tirassegno siamo pallottola e bersaglio. E qualche volta ci capita di sparare ai sogni di quando ancora sognavamo. Virus non è il problema. Non è né causa né effetto. La salita faticosa sta nel riconoscere le cause e modificare gli effetti. Potrebbero essere nascosti dietro a quello specchio. Sotto il tappeto delle nostre ipocrisie. Nella cantina delle nostre coscienze intossicate. Però andarli a cercare è una bella sfida e sarà interessante uscire dalle nostre trincee per tornare a dirci la verità. Tornare persone e non doverci perdere nei tramonti da fotografare e condividere. Potere non sarà contento e Narciso si scoprirà sempre più debole. Virus scomparirà. Non avremo più leader carismatici. Né blogger con milioni di follower. Non vivremo schiacciati da stimoli e distrazioni per il sempre fuggire. Nei nostri telefoni terremo un paio di foto al massimo e sapremo riconoscerci senza inviarci immagini. Finalmente a respirare per andarci a riprendere la vita. Stefano Pierpaoli 15/10/2020
In ginocchio da te
In ginocchio da te Il vivace dibattito che si sta animando nel mondo dello spettacolo poggia soprattutto sulle giuste rivendicazioni di una categoria che nell’attimo in cui si è manifestata la pandemia si è scoperta profondamente vulnerabile e pressoché priva di tutele previdenziali. Lo svelamento di questa condizione ha rapidamente moltiplicato le iniziative di mobilitazione per denunciare l’inevitabile disagio economico al quale sono condannati i lavoratori dello spettacolo.Qualcuno potrebbe rilevare che si tratti di una vertenza appartenente a tutte le categorie del mondo del lavoro e dell’impresa e di fatto è così.Essa assume tuttavia un rilievo particolare perché si intreccia con una sua specificità di espressione e di ruolo per l’ampio coinvolgimento popolare legato all’industria dell’intrattenimento. Questo comparto, che vale in Italia quasi 40 miliardi l’anno, subirà un drastico ridimensionamento nei volumi d’investimento e negli spazi di vendita di prodotto. Sulla televisione peseranno i tagli delle spese pubblicitarie e le produzioni cinematografiche e teatrali, ma non solo quelle, saranno gravemente penalizzate dalla difficoltà di allestimento dei set e delle prove oltre che dalla chiusura totale o parziale dei cinema e dei teatri.In questo scenario si aprono due questioni.La prima riguarda il rilancio degli investimenti e dell’attrattività pubblicitaria e la seconda è legata ai modi di produzione e al coinvolgimento del pubblico.Ce ne sarebbe una terza che interessa il valore sociale dell’offerta ma fino a oggi, aldilà delle semplificazioni e della retorica da social network, non sembra essere considerata un argomento prioritario (1.679 battute senza usare la parola cultura e i suoi derivati…wow!). L’elemento primario della chiamata alle armi verte legittimamente su un’impellenza economica che opprime e fa paura. Un senso di urgente bisogno che oltre a sollecitare una dovuta attenzione da parte delle Istituzioni cerca di rappresentare un’area di impulso e di sviluppo fondamentale per il benessere collettivo.Bisogna ammettere che questo arruolamento fatto di raccolte di firme e gruppi Facebook risente di una certa asimmetria. Tutte queste iniziative avanzano talvolta sulla spinta e sull’entusiasmo di alcune realtà di riferimento e più sovente sulla rapida aggregazione che avviene sulla base di poche parole d’ordine. In alcuni casi si tratta di numeri importanti che vengono però raggiunti grazie a dinamiche di adesione istantanee e istintive. Gli aderenti figurano in più elenchi in un apparire grottesco e insensato.Frequenti le frammentazioni nei percorsi e i travasi tra un gruppo e l’altro in un’atmosfera che molto spesso declina nell’apatia e nel progressivo disimpegno. Le sigle dei padroni si uniranno a quelle dei sudditi che camminando sui ginocchi arriveranno a una trattativa già chiusa in partenza.Sono queste caratteristiche molto italiane e diffuse in tutti i nostri contesti sociali.Sarebbe forse saggio un ripensamento sulle raccolte delle firme che è un modello abusato che mostra già da molto tempo evidenti segni di logorio. A questo va aggiunto che il potere costituito va a nozze con le raccolte di firme così come fa godere i padroni della giostra.In questo caso bisogna però sottolineare che metodi, bisogno e frammentazione sono parte integrante e di fatto sono stati creati da un sistema degenerato fin quasi alla decomposizione. Prova ne è il fatto che all’assenza di un assetto previdenziale corrisponda, o per meglio dire corrispondeva, una martellante esaltazione del grande successo del cinema italiano. Tutto questo successo non ha di fatto coinciso con la valorizzazione delle professioni e con la messa a sistema di adeguati strumenti di garanzia sociale. Prova evidente che gli ingranaggi della macchina dei sogni ruotavano solo su accordi di vertice e godevano del silenzio dei lavoratori, tanto che doveva essere chiaro a tutti che se fosse avvenuto un intoppo in tanti sarebbero stati abbandonati. Beh, l’intoppo c’è stato. E che intoppo.È chiaro, ed è anche giusto, che in una fase così drammatica il primo pensiero vada alla spesa e alle bollette, ed è altrettanto ineludibile che le Istituzioni debbano dare risposte precise e risolutive al più presto.Resta tuttavia la forte preoccupazione che misure temporanee che risolvano il problema economico per qualche mese non corrispondano al ripensamento e quindi alla rigenerazione di un settore che dovrà fare i conti con la storia e con se stesso.La concessione a stralcio, da parte del Ministro, dei sostegni richiesti, potrebbe rivelarsi paradossalmente per i beneficiari una terribile sconfitta. È la dinamica subita da milioni di lavoratori dalla seconda metà degli anni ’70. Il patto non è mai stipulato con loro. L’accordo avviene sempre e solo con i padroni. Un accordo criminale e repressivo per i diritti dei lavoratori che serve ad alimentare un sistema che ha prodotto disuguaglianza, miseria e disperazione. Ce lo dice la storia e oggi dovrebbe essere chiaro a tutti. Le grandi vertenze sindacali non hanno speranza se partono dal basso specie in assenza di una definita coscienza di classe. Non hanno speranza se non incontrano e se non sono sostenute da un profondo lavoro politico. Non raggiungono nessun obiettivo se non presentano una visione e non creano prospettive nel lungo periodo.Non arriveranno da nessuna parte se non creano contraddizioni al sistema elevando il livello intellettuale della protesta. Elemento determinate soprattutto quando si rivendica un elevato valore sociale del proprio ruolo.Un reddito di garanzia o di emergenza rappresenta il corretto traguardo da conquistare nell’immediato ma deve essere la tappa preparatoria, anche nel suo valore simbolico, per costruire il modello produttivo del futuro.Quello e nient’altro sarà la vera garanzia per migliaia di lavoratori, perché consoliderà il ruolo delle professioni, permetterà di valorizzare i talenti e assicurerà a tutto l’ambiente di lavorare nella legalità e nella trasparenza. Quando questo brutto momento sarà passato cammineremo con molta probabilità sulle macerie di una società colpita al cuore e disarticolata nei suoi riferimenti e nei rituali collettivi.Ci sarà voglia di tornare nei cinema, nei teatri e in tutti i luoghi che ad oggi risultano subordinati a un sistema totalitario e oppressivo basato sui numeri e non sulla dignità della persona.Quei luoghi avranno l’obbligo di riconquistare un valore sociale ben percepito dalla popolazione per tornare a essere ricchezza culturale e garantire ai cittadini lo strumento più efficace per riprendersi la vita.E finalmente si potrà
Estate romaramana
Si farà forse un gran parlare del nuovo nome dato all’Estate Romana ed è giusto così. Susciterà sdegno, disgusto, ilarità, imbarazzo. Questa città, ormai a cultura zero, si è spenta sotto il peso di titoli di testa. Titoli tanti, teste (pensanti) un po’ meno. In realtà l’Estate Romana, quella inventata 45 anni fa dal genio di Renato Nicolini, è morta da tanto tempo. Accanto a Nicolini c’erano Petroselli, Argan e altri colossi in fatto di esperienza, di onestà politica e intellettuale. Ma da allora più nulla. Nani e ballerine di terza categoria che senza nessuna idea hanno organizzato una pagliacciata dopo l’altra mettendo qualche spiccio “pe fa divertì la ggente”. Spicci mica tanto, visto che si sono buttati al vento milioni di euro. Il titolo cambia perché cambia il modo di distribuire i soldi per bancarelle e altre scemenze sparse per i quartieri volgari di una città senza più identità. Ma la sostanza è la stessa. Adesso c’hanno messo un gatto con la scritta di Zètema e magari il prossimo anno, tornati al titolo originario, ci metteranno un ippopotamo con la scritta di Zètema. Romarama. Dare degli imbecilli a chi ha ideato questa nuova idiozia sarebbe facile ma anche inutile. Tanto ormai “imbecille” se lo dicono pure da soli. Sul sito di Roma Capitale si legge che “romarama parla di una visione ampia di Roma e di una collettività che riprende a muoversi, dopo il lockdown, e torna a vivere spazi comuni.” C’è la firma dell’Assessorato alla Crescita Culturale (crescita de che?) ma evidentemente non si sono accorti che la collettività si muove eccome. Si naviga tra ignoranza e movida. Tutta movida con milioni di fantasmi ubriachi di birra e canne che si sbracano tra meraviglie storiche umiliate e strade sporche piene di buche. Per ritirare su Roma ci vorrebbero i Romani…a trovalli. Oppure i cervelli e qui entriamo nella fantascienza. Mannaggia, queste cose non si dovrebbero scrivere perché “c’è un grande mondo fatto di impegno e di passione che lavora per il bene comune”. Però, chissà com’è, appena esce il bando il bene comune sparisce sempre. Perfino chi contestava animato da grandi ideali, alla fine vede quel cartoccetto di euro e si ammansisce. Ne bastano pochi per far abbassare la testa ai rivoluzionari della domenica. Ma che sarà questo bene comune? La cultura o l’estate romaramana col gatto? Stando ai risultati e all’aria che si respira camminando per strada il bene comune deve essere il sistema Roma: quella cosa in cui ci si spartisce il bottino dei bandi e la città non se ne accorge. Adesso aspettiamo le prossime frittatine di piazza e romarama com’è arrivata scomparirà senza lasciare traccia. Speriamo che questo grande mondo fatto di eccetera si dia una mossa perché da quello che vediamo tutto questo lavoro non si vede proprio e non si è visto da un sacco di tempo. Ora ci vogliono idee. E amore, quello vero. Quello che non sparisce. Per chi vuole leggere: 24 settembre 2014 – Piovono eventi 8 ottobre 2014 – Estate Romana: la ricaduta sul territorio 2 dicembre 2014 – Romicidio volontario e premeditato 5 novembre 2015 – Bandopanettone di fine anno 6 aprile 2016 – Cultura Roma: un silenzio troppo lungo 6 giugno 2016 – Ovviamente Roma 22 giugno 2016 – 150 metri poi gira a…boh!
La Cultura è solo buona?
La capacità di inclusione culturale è il termometro del livello di civiltà di una nazione.Il desiderio di conoscere, e quindi di emanciparsi e quindi di volare più in alto, ha caratterizzato intere generazioni ma potremmo dire che ha segnato la storia stessa dell’umanità.
Paralleli sessantottiani
In principio fu Berkeley e la genesi prese vita dalla protesta contro la guerra in Vietnam. I totalitari Stati Uniti erano distanti anni luce dal resto del mondo, se non nella dimensione del dominio imperialista indotto dalle guerre e da un capitalismo distruttivo che avrebbe aspettato ancora 20 anni per smantellare il mondo. Però tutto partì proprio da quei posti intorpiditi nella loro democrazia sintetica e nel culto suicida del mercato. I movimenti culturali e le avanguardie americane si alimentavano infatti di eutanasie e fanatismi plastificati. Misticismo, LSD e rivoluzione sessuale non avevano molte chance per sovvertire il potere costituito ma alimentarono un’onda che nel 68 attraversò l’Oceano per travolgere l’Europa. Nel Vecchio Continente lo scenario fu ben diverso. Ambedue le rivolte, Usa ed Europa, nascevano da un’incombente crisi economica ed erano radicate nella borghesia benestante che temeva di perdere i benefit del boom che stava evaporando. Ma mentre la rivolta americana era la testimonianza di un sussulto tossico che le classi dirigenti avrebbero soffocato facilmente, nei paesi europei esistevano riferimenti storici, ideologie dinamiche e soprattutto partiti politici che non rispondevano ancora alle lobby finanziarie. La frammentazione e le profonde differenze (tuttora presenti) tra gli stati-nazione europei contribuiva oltretutto a determinare fenomeni sociali e utilizzi politici disomogenei, consentendo ai movimenti giovanili e a quelli operai di ramificarsi in molteplici direzioni poco controllabili. La politica europea seppe tuttavia interpretare e crescere grazie alle contraddizioni che la protesta fece emergere e che essa stessa rilevò al suo interno. Malgrado questo e pur contando su giganti della politica ben distribuiti nei vari schieramenti, non ebbe la capacità e nemmeno il coraggio di creare una prospettiva politicamente efficace e valorizzare quelle esperienze. I sessantottini del resto erano poca roba. Un prodotto borghese agitato da una spinta che era sì legittima e sostanziale ma che al tempo stesso non aveva radici profonde per opporsi al vento del carrierismo soprattutto politico o dell’arruolamento terroristico. In un decennio quell’anima rinnovatrice venne fagocitata da scelte estreme e da miseri conformismi. Quei giovani di belle speranze divennero una classe politica di mezzo. Molti finirono in carcere. Tutti gli altri morirono nello yuppismo degli anni 80. Come non azzardare un parallelo con i fatti di oggi? Abbiamo una tremenda crisi economica che ci sta paralizzando e un malessere che scorre pesante nelle nostre strade e che cresce rapidamente. Negli Stati Uniti proclamano un coprifuoco(!) e se allora fa occorrevano 4 anni per esportare una protesta, nell’epoca di Internet bastano 5 ore. Non è più un’onda con un qualche riflesso romantico e non c’è più un impulso intellettuale di spessore ma gli effetti sono molto simili. Anche gli elementi suggestivi di quel tempo sono stati sostituiti. Le contemplazioni mistiche sono diventate elucubrazioni grilline e al posto degli allucinogeni abbiamo in tasca gli smartphone pieni di immagini. La rivoluzione sessuale non si sa cosa possa essere diventata ma con un click siamo su Youporn e schiere di odierni 35enni si sono formati sulle pagine scritte da Melissa P nel 2003. Oggi come allora qualsiasi coglione può dire che vuole fare la rivoluzione ma è anche vero che il libretto rosso di Mao si è trasformato in un certificato ISEE ed è questo il testo più sventolato. Che tristezza. La rivoluzione non è stata fatta allora e non si farà nemmeno oggi. Per come l’abbiamo conosciuta nei libri di storia, oggi sarebbe un fenomeno antistorico. Però è venuta lei a bussarci alla porta e si è presentata con argomenti seri e indiscutibili. Se è vero che nessuno le aprirà, perché nessuno saprebbe cosa dirle, sarebbe bene trovare qualcuno che prima o poi sappia interpretare i messaggi che ha portato con sé e quelli che aggiungerà. Nel ‘68 avevamo qualcosa da ricordare e qualcosa di fronte a noi. Quella disperazione, che diventasse violenza, droga, guerra o elaborazione, discussione e utopia era vissuta da donne e uomini che una cultura potevano rivendicarla, affermarla e portarla avanti. Magari sbagliando, ma i punti fermi esistevano. Per le figurine di un album di selfie sarà un po’ più complesso venirne a capo, ma qualcosa bisogna mettere in moto al più presto. Perché quella violenza lì ha fame e sete ed è bene non scherzarci troppo cercando consenso o con qualche altra cazzata demagogica fatta di cifre e di percentuali. Serve una visione e servono attributi. E non c’è tanto tempo. Stefano Pierpaoli 04/06/2020
Era successo qualcosa
Però era successo qualcosa. Avevano ascoltato la politica. O meglio avevano atteso di ascoltarla. Ma la politica non aveva saputo dire. Aveva alternato ai silenzi le solite scorribande propagandistiche misere e volgari. Però stava succedendo qualcosa. Avevano ascoltato il mondo dell’informazione. Ma giornalisti e opinionisti fluttuavano nel loro essere il nulla. Continuavano a danzare nei loro salotti con la stessa musica di sempre, allo stesso ritmo, nello stesso stile disarmonico di sempre. Però stava succedendo qualcosa. Notizie e informazioni non arrivavano dalle staffette partigiane, da coraggiosi infiltrati nascosti nei solai e la gente non si riuniva affamata, al buio, per ascoltare Radio Londra. Milioni di video scambiati a migliaia al secondo. Talk show seguiti dai divani. Giochi sui social e montagne di immagini. Un’immensa festa collettiva camuffata da partecipazione. Giusto, non c’era la guerra. Istituzioni e governanti avevano provato a definirla guerra ma all’inizio era tutt’altro: una terribile pandemia. Fu quando uscirono dalle case che popolo, politica, giornalisti e governanti trasformarono la sciagura in catastrofe. Si erano accorti di poco. Avevano cambiato nome alle cose. Avevano allontanato il senso dal sentire. Nulla era stato esperienza in quel Circo Barnum del sempre distrarsi, del sempre simulare, del sempre dover ridere. Però era successo qualcosa. Ma alla fine andò tutto bene. Il distrarsi, il simulare e il ridere avevano trovato la loro ragione di resistere. Erano poveri ma in fondo anche prima lo erano. Erano più alienati ma da decenni si stavano alienando nella tv e nel web. Erano soli e isolati ma soltanto in un modo diverso rispetto al passato. Avevano paura, questo sì, ma sulla paura, per la paura, avevano portato al trono i loro sovrani. Erano allineati, addestrati, controllati ma avevano fatto di tutto per vivere in quartieri scrutati da telecamere. Erano più repressi, ma in tanti ne furono felici. In quel tempo sospeso nel quale tornavano a incontrarsi senza potersi abbracciare tutto rientrava al suo posto. Tra macerie non comprese per vite pagate con un reddito d’emergenza. Lo avevano sognato e votato quello stesso reddito. Era lo stesso popolo, gli stessi politici, gli stessi giornalisti e gli stessi governanti. Però era successo qualcosa. Ormai, era successo qualcosa. Stefano Pierpaoli 22/05/20 Francesco Guardi Incendio del deposito degli oli a San Marcuola, 1789