Caro Rutelli, con Barbie non si va lontano

Sono trascorsi 13 anni e sembra non averli nemmeno vissuti.
Era il 2010, il mondo del cinema, e non solo, si mobilitò contro i tagli al FUS inseriti in finanziaria. In quell’occasione venne occupato il tappeto rosso di Roma. Oggi rischierebbe di scatenare le ire della corposa setta dei selfie.

Putin siamo noi

Ignavi, Inferno Canto III

Chissà se chi è sceso in piazza per inneggiare alla pace, si è sentito così innocente da possedere il diritto di tirarsi fuori dalla Storia. Così leale da fermare il suo dito prima di lanciare la bomba che colpisce e che uccide. Perché la mano che spara, nessuno si senta offeso, è anche la nostra. Il gesto simbolico può certo essere tappezzato con colori promettenti e accompagnato da musiche soavi ma ciò che si rappresenta ci distrae, come sempre, dal guardarci dentro. Dal leggere quel racconto che ci parla di noi, del nostro scivolare nel quotidiano inerme, del consolarci con le nostre infinite compulsioni. Tutti stretti e nascosti in un coro uniforme. Rattrappiti nell’infinito silenzio del tornaconto legato all’attimo. Rassicurati, e perfino gratificati, dal consenso inconsistente che ci si scambia a vicenda. In realtà sappiamo che è un branco ostile quello in cui siamo stati radunati e in cui abbiamo scelto di far finta di esistere. Sappiamo bene che basta meno di un secondo perché il nostro vicino prema il grilletto della sua frustrazione. Della frustrazione di tutti. Basta un’impronta ignota nel nostro orticello arido per scatenare l’odio e la violenza. Basta che voli una moneta d’oro per accendere gli animi o addormentarli. Ed eravamo noi quei cialtroni volgari che, un mese fa dagli scranni di un parlamento, calcolavano il loro vantaggio giocando sulla pelle di un popolo. Siamo noi nelle mille miserie che aspettano la manna studiando il modo più rapido per rubarne una fetta più grande. E siamo stati noi che di fronte alla sciagura siamo corsi a scrivere con l’inchiostro dell’ipocrisia che sarebbe andato tutto bene. Sempre con tanta musica. Siamo noi a reagire dicendo “cos’altro possiamo fare” e a voltarci dall’altra parte mettendo la foto del nostro falso impegno per guardare verso l’esterno e soprattutto per farci guardare solo dall’esterno. Per un’approvazione che però vuol dire tradimento e veleno. Siamo noi a non aprire la porta quando la Storia viene a bussare e ci scagliamo contro gli effetti del nostro essere rimasti immobili. Ma sia ben chiaro, una ribellione che duri poco, possibilmente non all’ora dell’aperitivo. E guai a farci sapere che quei colpi alla nostra porta, alla porta di ognuno di noi, diventeranno ancora più forti e invadenti. Siamo pronti ad annientare chiunque voglia togliere la tappezzeria colorata e provi a spegnere la musica che ci piace. Quella porta deve restare chiusa perché la prateria arida in cui ci muoviamo storditi è il migliore dei mondi possibili. Perché quella prateria arida siamo noi. Stefano Pierpaoli 26 febbraio 2022

Fine Covid: MAI

Ci avevano parlato a lungo delle mani pulite. Un cartone animato prodotto dal Ministero della Salute (da qualche amico suo) ci descriveva come lavarci bene le mani e i vantaggi che ne derivano. A guardarlo sembrava, e sembra ancora, uno spot per idioti concepito da imbecilli in cattiva fede. Tuttavia, questa minchiata sesquipedale ha avuto successo. Non perché abbiamo imparato a lavarci le mani ma per tre specifici motivi: ha sbandierato quanto siamo premurosi e attenti ai bisogni sociali ha simulato una strategia di intervento ha riempito un po’ i palinsesti. Il modello, già in voga da molti anni, ha funzionato al meglio di fronte a una catastrofe che andava manovrata, manipolata e utilizzata per arginare un malessere sociale che stava diventando incontrollabile. Di fatto avevamo un Welfare insignificante e pertanto inutile rispetto ai bisogni sociali e agli interventi a essi legati. Il tutto guidato da una classe dirigente politica ridicola e volgare. Quello che invece marcia speditamente e senza intoppi è il sistema dei media che ci è subito salito sopra e non solo ha riempito i palinsesti di infinite cazzate, ma si è definitivamente imposto come punto di riferimento per la lettura della contemporaneità. Un milione di trasmissioni senza senso, che parlano sempre delle stesse cose dette dalle stesse voci ha potuto produrre una programmazione senza nessuno sforzo, senza nessuna coscienza e soprattutto lontano da un qualsiasi senso di responsabilità. Il Covid è stato una manna divina che regalato all’enorme liquame giornalistico italiano un’occasione irripetibile. A due anni di distanza continuiamo a vedere sui nostri schermi la stessa, identica rappresentazione informativa che crea solo disastri e smarrimenti. Siamo un popolo che ama il disordine e le baraonde televisive ci piacciono. Amiamo rimbalzare passivamente sulla superficie dei flipper mediatici come palline impazzite. Ci lasciamo guidare, in uno stato di ipnosi, dai simboli che vengono esposti sulle vetrine e ci ribelliamo nei recinti dei social e da quelle celle, gonfie di disimpegno, organizziamo folle di disperati che scendono in piazza per manifestare il nulla. NO-Tav e Sì-Tav, No-Tap e Sì-Tap, No-DDL Zan e Sì-DDL Zan. Formule che fanno ridere nella loro grottesca e insulsa esibizione. Il trionfo per questa massa di tifosi è però il No-Vacs e Sì-Vacs e su questa disputa, meravigliosamente misera e autodistruttiva, i media di sistema (tutti) godono come ricci. Il modello calcistico è compiuto: vinceremo gli Europei, qualche decina di miliardari saranno più miliardari e qualche centinaio di migliaia di cialtroni saranno più poveri, ma felici e inneggianti. Nelle redazioni dei giornali e delle varie trasmissioni televisive sognano che tutto questo non finisca mai. Sui social si pregano gli dei della contrapposizione affinché ci si continui a schierare senza capire un cazzo di nulla (c’è qualcuno che ha letto il Disegno di Legge Zan?) e soprattutto senza doversi impegnare sul serio. Schierarsi alla cieca vuol dire appartenere a qualcosa e quindi esistere grazie al riconoscimento di simboli e codici elementari. Siamo nella società della rappresentazione della vita e non più della vita nel suo significato autentico e originario. Finché potremo scrivere in tre righe da che parte stiamo ci sentiremo vivi. Se andremo a darci legnate per strada potremo dire di essere vivi perché così ci hanno insegnato a fare. Siamo tutti “fatti” e con qualcosa dobbiamo continuare a farci. Non si sa se moriremo di Covid ma si dovrebbe vedere facilmente che siamo morti di grandi fratelli, di cinepanettoni e di videogiochi sui telefoni. Il “Fine Covid: Mai” è la tempesta perfetta, per noi e per chi ci domina, perché ci abbraccia in una morsa in cui non c’è più spazio per cause e soluzioni ma solo per gli effetti, e l’esito è evidente e scontato. Si chiama violenza, un demone che si nutre di ignoranza e frustrazione e si muove indisturbato in un mondo privo di coscienza e dignità. Manovrato ad arte dalla politica e dai padroni dell’informazione e utilizzato dalle masse per far finta di esistere. In qualche modo o in nessun modo. Buon Gramellini a tutti. Le altre droghe ce le facciamo da soli. Stefano Pierpaoli 26/11/2021 Dipinto di Vann Nath – Pittore cambogiano    

Mafia e cultura

Il 21 marzo sarà la Giornata nazionale in ricordo delle vittime di mafia. Le celebrazioni sono sempre un pericolo per la retorica che si portano dietro, ma il rischio più grande è che le mafie acquistino in questo tempo un potere smisurato. Chi ha pagato il prezzo più alto sono i caduti nella guerra contro la mafia, così come sono le loro famiglie. Ma è sempre bene ricordare che le vittime della presenza mafiosa, e dell’influenza che essa può esercitare, siamo tutti noi. La mafia è un sistema ed è un’architettura di pensiero. Non a caso intellettuali e uomini che hanno combattuto e combattono contro le organizzazioni criminali mafiose, hanno indicato la scuola come più valido deterrente contro questo fenomeno molto italiano. Eh sì, molto italiano. Perché le dinamiche del padrino e del picciotto, del mandante e del killer, sono tipiche della nostra cultura. Siamo dannatamente abituati all’inchino, alla subalternità, all’ubbidienza, e se esse ci arrivano dal padrone influente e ci offrono un vantaggio, noi non sappiamo rifiutare. Il capo del racket è in questo modo l’omologo del pagatore di pizzo. Il confine tra le due figure si sfuma fino a fondersi in uno stesso magma che agisce nello stesso contesto. Se tutti rifiutassero di pagare, il gesto criminale svanirebbe in un attimo, ma ce l’abbiamo nel sangue. Un malavitoso romano, molti anni fa, quando gli chiesi se c’era il racket nella sua zona, mi rispose: “Vanno tra loro. Napoletani, Siciliani, Calabresi. Da noi nu ce vengono. Noi je menamo”. Non me ne vogliano gli amici di quegli splendidi luoghi, ricchi di Storia e di Cultura. I tempi sono cambiati e anche Roma e i Romani (anzi i Romesi) ormai fanno parte di quel gioco lì. Anche Roma è immersa nelle mafie. E a proposito di tempi e di mafie, quello che stiamo vivendo ci espongono ancor di più al potere mafioso. La povertà e l’insicurezza sociale formano una facile terra di conquista per ogni italica cupola. Lo sappiamo bene. Ma se le mafie sono soprattutto una questione culturale è bene che questo tema venga sviscerato senza paura. Ho seguito uno spot abbastanza ridicolo, a tratti nauseabondo, in cui venivano snocciolati i grandi successi del nostro cinema nell’ultimo periodo. Curioso che sia stato presentato in un periodo in cui tutti i cinema sono chiusi ma anche questo fa parte dello squallido giochetto all’italiana. Anche questo lo conosciamo ormai bene. Tutti i convitati avevano preso soldi pubblici dalle Istituzioni. Tutti i convitati parlavano con entusiasmo e trasporto di quello che erano riusciti a realizzare grazie al sussidio dei sovrani. Non sappiamo se il loro favore fosse motivato da un intimo convincimento o solo dal fatto che dovevano omaggiare il re per il bottino ricevuto ma non è questo il problema. Chi fa spettacolo ha nelle sue corde il fatto di essere un giullare di corte. Ma chi dovrebbe rappresentare la libera espressione e costruire ponti tra passato e futuro, così come determinare processi che hanno a che fare con la conoscenza, avrebbe il dovere e diritto di poter testimoniare anche lo spirito critico nei confronti del sistema. Chi deve fare cultura non può essere un giullare di corte. Ma se il sistema lo paga per svolgere il suo lavoro come farà? La risposta è semplice: non farà. Se un apparato mafioso ti garantisce un benessere passivo o anche solo la sopravvivenza, cosa farai? La risposta è altrettanto semplice: non farai. Il fenomeno che si è affermato, e che si sta rapidamente intensificando nel mondo della cultura italiano, è figlio di un sistema mafioso. L’istituzione fagocita, assorbe e paga. Lo fa perché l’evento culturale garantisce una propaganda veloce e di facile consumo. Se non entri a far parte di questo circolo ti spegnerai nel nulla. Allora si sceglie il nulla più conveniente: la sottomissione al monarca che ti permetterà di riempire la pancia. E scordati lo spirito critico. Vendi la tua anima e ringrazia il re. Lui ti farà mangiare. Poco. Il parallelo tra mafia e politiche culturali potrebbe apparire azzardato. A molti sembra in realtà molto evidente. Per tutti gli altri che non se ne sono accorti basterà aspettare un paio d’anni. Non di più. Che le vittime siamo tutti noi è invece indiscutibile: siamo i più ignoranti d’Europa. Se non interromperemo questo circolo vizioso anche le mafie aumenteranno il loro potere. E aumenteranno le vittime delle mafie. Personaggi e interpreti (in ordine di apparizione): Le celebrazioni: usanza demagogica e ridondante, frequente nei regimi totalitari Il capomafia: coloro che sono a capo delle organizzazioni mafiose Le vittime di mafia: in Italia tante…troppe Gli intellettuali: figure che non esistono più Il malavitoso romano: si chiamava Mario, abitava al Pigneto quando questo quartiere era un’altra cosa. Credo sia morto. Come il quartiere I Romesi: i Romani postmoderni I convitati: tanti…troppi. Privi ormai di anima e di spirito critico I giullari di corte: una miriade I sovrani: presidenti, assessori e compagnia cantando Le vittime della mafia culturale: tutti noi Stefano Pierpaoli 19/03/2021 “Dante e Virgilio all’Inferno” William-Adolphe Bouguereau (dettaglio del Demone)

Sindemia e barbarie

Una volta i ricercatori stavano nei laboratori e i medici negli ospedali. Capitanati dal “faziesco” Burioni hanno invaso i talk show. E non abbiamo capito più niente. Una volta esistevano i vaccini. Ci dicono dello straordinario lavoro da parte dei ricercatori che in pochi mesi hanno creato un vaccino che ci salverà dalla pandemia. È un vaccino che funziona al 95%. Ma c’è chi dice al 60%. Però in certe condizioni potrebbe non funzionare. Potremmo stabilire una media del 75%. Soprattutto per le persone più anziane. No, per la fascia fino ai 55 anni. Entro pochi mesi raggiungeremo l’immunità di gregge. Tuttavia potrebbe volerci molto di più. Arriveranno 100 milioni di dosi in 6 mesi. Ce n’è uno nuovo che arriva all’80%. Le dosi verranno scaglionate in un altro modo. Avremo un tot di dosi che però al momento non possiamo quantificare. Non è proprio una copertura ma in parte potrebbe immunizzarci. Per un anno. Per sei mesi. Per 18 mesi. Per 6 settimane. Per due anni. Mi ricordo che quando facevamo il vaccino antipolio eravamo certi che la poliomielite non ci sarebbe venuta. Punto. Si chiama vaccino perché ha una funzione e un effetto, ambedue accertate, altrimenti è un’altra cosa, ha un altro nome e per spiegarmelo dovrai usare troppe parole. Se mi inietti una sostanza nell’organismo e mi aggiungi 300 premesse non so più cosa pensare. Se poi queste premesse diventano uno spettacolo di varietà, mi deprimo un po’ ma poi mi rassegno perché in questa società vivo e non c’è nulla da fare. O forse qualcosa ci sarebbe da fare. Spero vivamente che il vaccino ci salvi dalla pandemia ma se devo essere sincero, la pandemia mi interessa relativamente. Un sistema, da tempo moribondo, sta implodendo e nella sua disperazione prova a scommettere su strategie che hanno fatto tanti danni e che ormai sono inutili. Si sta facendo strada un termine più appropriato: sindemia. Da un mese a questa parte, aggiungo finalmente, si sta diffondendo la consapevolezza che quello che stiamo vivendo è una frattura storica molto più profonda di quello che viene rappresentato sui media. La sindemia è una pestilenza complessa. Viene diffusa attraverso l’inquinamento, favorita dai disboscamenti, ingigantita dai modi di produzione. La sindemia è una pestilenza complessa. Viene diffusa grazie all’inaridimento delle coscienze e alla diffusione di una cultura che ci rende ignoranti e storditi. La sindemia è una pestilenza complessa. Si propaga cavalcando l’approssimazione e l’illegalità. Prende forza dall’assenza delle idee e si ciba con le disuguaglianze. La Storia ci ha fatto un (brutto) regalo e non ce l’ha fatto consegnare da Babbo Natale. Sta cercando in tutti i modi di mostrarci la barbarie in cui ci siamo beatamente infilati. Ci sta svelando quanto siamo divisi e rivali, sempre schierati ciecamente e passivamente da una parte o dall’altra. Quella Signora lì, sempre la Storia, ci sta chiedendo di cambiare passo e di tornare umani. E questo vuol dire scegliere di riprenderci la vita e allontanarci dalle rappresentazioni della vita stessa e dai mille teatrini per cui facciamo il tifo. Stefano Pierpaoli 01/02/2021

Spiegami il freddo

Stamattina ero sul balcone. Non mi ero coperto bene e la temperatura rigida si faceva sentire. Sono rimasto lo stesso perché ho sentito il bisogno di ascoltare il freddo che avvertivo. Apparentemente c’era una spiegazione semplice. È inverno, erano le 7,00 e c’è aria da nord. Tutto così scontato che ragionarci sopra poteva far parte delle mie solite follie. Il freddo che mi avvolgeva si stava facendo strada come una nave rompighiaccio. Il rimbombo delle lastre che si spaccavano sotto la prua dei miei pensieri, aveva cancellato i rumori di una grande città mentre vive il momento in cui si mette in moto. Ripetevo a me stesso: “Spiegami il freddo!”, e per farlo ho usato il suo contrario. Ho immaginato di percepire improvvisamente un’afa, un inatteso caldo estivo. Un evento assurdo che invade e che non c’entra niente. Inconcepibile e anche bugiardo. Ho pensato che sarebbe stato veramente un brutto scherzo della natura. Un imprevisto che avrebbe generato ansie e paure. Ho provato a proiettarmi in quella situazione fino ad arrivare a quell’angoscia. Mi sono sentito fuori dal mondo. Poi ho messo ordine nei miei pensieri. Ho ragionato sulle stagioni e sul fatto che bene o male non possono esserci grandi sconvolgimenti. È dicembre e fa freddo, com’è normale che sia. L’ecosistema è una gran bella garanzia. Chiarisce, risolve e rassicura. L’angoscia si è allontanata e hanno ripreso quota i brusii dei passanti e i rumori delle macchine. L’immenso organismo vivente che chiamiamo società si era ripreso la scena e io ero tornato nel mondo. Ero di nuovo in una qualche impercettibile porzione dell’universo e potevo osservarla e ascoltarla. Tutto sembrava regolato da quello stesso ecosistema che poco prima avevo cercato di mettere in dubbio con i miei ragionamenti strampalati. Guardando le persone che camminavano lungo i marciapiedi ho cercato di percepire l’ecosistema che governa l’umanità. L’architettura di un immenso DNA che regola e tiene in vita le nostre stagioni emotive e sentimentali. Non può trattarsi di altro, se non di un equilibrio sociale e culturale. In quello stesso istante mi sono perso. Perché quel biosistema, fatto di punti fermi, è diventato così confuso e sregolato che evapora nell’attimo stesso in cui cerchiamo di scoprirlo. Nelle nostre anime di sicuro esiste ancora ma ce ne accorgiamo appena. Tra noi ci scambiamo il minimo indispensabile. Ci troviamo con un messaggio e ci perdiamo con cinque righe di email. Ho provato a darmi qualche risposta e nello stesso tempo sentivo crescere un’inquietudine pura. Limpida come lo sguardo di un bambino. Perché un bambino ben saprebbe spiegare cos’è l’equilibrio che stavo desiderando di incontrare. Gli basterebbe alzare gli occhi e osservare le nuvole con meraviglia e curiosità. E anche quell’inquietudine, a modo suo, era una reazione bambina. Del bambino che chiedeva di essere abbracciato e accudito. Però il dolore, che non sono riuscito a evitare, non era puro e nemmeno bambino. Era una sofferenza adulta che sotto al balcone non vedeva nient’altro che un sistema. Nessun “eco” (οἶκος= casa, abitazione) in cui riparare. Avevo di fronte un sistema e basta. Solo un sistema che cerca di annientare il nostro sentire originario e tutto ciò che ci prende per mano e ci accompagna. Che ci fa vivere fino in fondo lo scorrere del tempo e ci abbraccia nello svolgersi delle diverse stagioni della nostra vita. Il freddo che avevo provato a esplorare e che fino a poco prima mi avvolgeva, ora mi stava anche dentro. Perché il sistema che avevo appena visto tutto intorno è capace di inventare l’estate e l’afa anche quando non dovrebbero esistere. Nella stagione sbagliata. Nel tempo che non c’è. Ho stretto gli occhi e ho scacciato la macchina infernale che decide il nostro tempo. Ho pensato al bene, all’amore e al bello che deve arrivare. Ho respirato più forte per prendere gli odori migliori, quelli che escono dagli ideali più limpidi e coraggiosi. Ho trovato l’inverno. Ed era quello vero. Domani tornerò fuori a cercare quel freddo, mi coprirò meglio e penserò a come volare oltre quel sistema. E tutto il bene, al bello e all’amore da vivere ancora, nelle umane stagioni. Quelle che ci appartengono e che dobbiamo riconquistare. Stefano Pierpaoli 16/12/20 Il callesse – Claude Monet (1867)