La fine della Storia e lo 0 salvifico
“Pensate ai salti che faremmo in avanti, se ogni dietrologo di questo Paese, si trasformasse in un davantologo” Ho letto questo stuzzicante post su Facebook. In effetti la provocazione regge e Dio solo sa quanto avremmo bisogno di figure capaci di prevedere, programmare e individuare soluzioni per il futuro. Tuttavia, aprendo ogni giorno i quotidiani e seguendo i TG, ci troviamo di fronte a un’infinita processione di notizie nefaste su questioni relative a corruzione e rapporti criminali tra politici/amministratori e organizzazioni malavitose. La dietrologia con la quale dovremmo disvelare gli intrecci nascosti diventa attualità e le oscure trame del malaffare italiano ci investono sempre più direttamente. I banditi li abbiamo praticamente in casa: basta aprire una cartella di Equitalia e rendersi conto che siamo alla mercé di sovrani e vassalli disonesti che in cambio della loro disonestà (leggi: bastardaggine) torturano i cittadini con espedienti vessatori e ingiustificabili. In altre parole non abbiamo nemmeno più il lusso di fare i dietrologi. Sappiamo che la politica nazionale agisce in funzione dei dettami tedeschi. Siamo perfettamente coscienti che la grande finanza scrive le nostre leggi. Capiamo in un minuto (a volte qualcosa di più) che la storia dei 30enni al potere è solo una mossa propagandistica. Siamo in possesso di una serie di informazioni che ci rendono coscienti di ogni meccanismo e anche del più piccolo ingranaggio sul quale si muove la nostra politica cialtrona. E infatti, solo per fare un esempio, votiamo con sempre maggiore fatica. Quale dietrologia è più possibile in uno scenario così manifestamente degenerato? Perfino la P2 è stata sorpassata dalla terza e addirittura dalla quarta sua versione alimentate non più da celati e potentissimi manovratori ma da palazzinari e da faccendieri di serie C in un vortice di nomine e ruberie tanto palesi da diventare misere rappresentazioni sguaiate e volgari. Come giustamente dice l’autrice del post servirebbe qualche avantologo per aiutarci a voltare pagina. In fondo, il compito di un intellettuale dovrebbe essere proprio quello di contemplare il futuro e non di offrire conformiste raffigurazioni dell’esistente, sport quest’ultimo, molto in voga dalle nostre parti. Purtroppo, il pazzo che si azzardasse a compiere un azione simile, verrebbe isolato e annientato dai tanti baroni (e dai loro schiavetti) che mal digerirebbero l’onta prodotta dal “visionario”, dall’inutile sognatore. Morirebbe segregato nelle pagine di un blog a meno che il folle in questione, non sia (anch’esso) un privilegiato che proviene dal mondo dell’informazione o, meglio, dello show business. Un avantologo che puzza di casta. Appunto. L’ipotesi più plausibile e al tempo stesso azzardata è che ci troviamo alle prese con la fine della storia. In quella dimensione cioè che non lascia spazio alle dietrologie – perché tutto è ormai manifesto e sperimentato in scale più ampie – e nemmeno alle “avantologie”, perché, nei contesti che viviamo, di fatto non esiste un futuro. Ma se si riconoscesse lo Zero a cui siamo ineluttabilmente giunti, se si proclamasse di aver toccato quel punto di non ritorno che causa ogni nostra angoscia sul domani, allora sì che potremmo evadere dall’agonia che dura da decenni e che recita il mantra della ripresa (impossibile) che sta per cominciare. In quello stesso istante, ci si può scommettere, si ripartirebbe senza dover aspettare il prossimo, arrogante, salvatore della patria, perché finalmente avremo preso coscienza che da quello Zero privo di fronzoli (propaganda, consenso, promesse e vane speranze) riusciremo a guardare molto più avanti e con una forza rinnovata che mille lavaggi del cervello avevano fatto scomparire. Gli stregoni, i maghi della comunicazione e i ridicoli tycoon della politica si dissolveranno in un attimo e noi, di nuovo protagonisti del nostro cammino, potremo ricominciare a inventare il futuro, con la potente umiltà di chi sa guardare avanti e soprattutto con infinita serenità. Giorno per giorno. SteP 9 gennaio 2014
La miseria di Messù Travet
Non dobbiamo aspettarci di più. Il Presidente Letta ha pronunciato parole da prima elementare. Ci ha detto che se cade il governo pagheremo l’IMU e lo spread salirà. La lezioncina è insignificante come quella dei bambini che se faranno i cattivi finiranno all’inferno. Il problema è che all’inferno, molti di noi, ci stanno già. Avremmo preferito formule che sapessero per lo meno simulare il ruolo dello statista. Del piccolo statista. E invece niente. La solita litania degli indicatori, senza nemmeno rendersi conto che gli indicatori smentiscono quello che dicono i suoi ministri, che annunciano una ripresa impossibile. Chi può chiedere un atto di fede dopo tanti anni di latitanze della buona politica? Letta Enrico, presidente del consiglio della repubblica delle banane. A un popolo sventrato non basteranno i prossimi proclami di presunta uscita dall’amministrazione controllata da parte dei mercati. Anche perché non sarà vero. L’interrogativo, dopo aver ascoltato il minimo indottrinamento del nuovo maestrino, è se è un cretino totale o se già sa che il governo cadrà. Difficile che questa ennesima accozzaglia di parvenu della politica venga travolta dal fango accumulato in decenni di malgoverno: questo governo dovrebbe tenere malgrado tutto. E per tutto s’intende il default del sistema Italia o lo squarcio nello stato sociale che inevitabilmente si aprirà, ad esempio, con la service tax. La miseria intellettuale del nostro paese si condensa nello scarno spessore espresso da Letta Enrico nella sua lezioncina da quattro soldi. Se qualcuno riflette su ciò che potrebbe aspettarci dietro l’angolo e che si chiama Matteo Renzi c’è da augurarsi che non commetta gesti estremi. Ah già…l’estremo lo abbiamo già superato da tempo. Che sciocco a non pensarci. Che scemenza riflettere. Le miserie ‘d Monsù Travet è una commedia in cinque atti in piemontese composta da Vittorio Bersezio e rappresentata per la prima volta il 4 aprile 1863 al Teatro Alfieri di Torino dalla compagnia Toselli. L’opera, edita dallo stesso autore in italiano nel 1871 e nel 1876 con il titolo Le miserie del signor Travetti a Milano presso la “Libreria Editrice”, venne poi pubblicata nel 1887 a Torino per conto della casa editrice “La Letteratura”. Ignazio Travet, il protagonista, è un impiegato pubblico che ritiene appunto di avere trovato “il posto sicuro” e soprattutto decoroso, ma in realtà non è altro che un umile impiegato. (da Wikipedia)
Accontentare le categorie
“Abbiamo destinato i fondi per il comparto. Questi sono i nostri strumenti a favore della vostra categoria”.Si tratta della risposta tipo di un qualsiasi funzionario amministrativo facente capo all’ente locale. Di un qualsivoglia burocrate istituzionale. L’unica indicazione consta nell’esercizio finanziario. Il solo strumento possibile è quello economico. Se però manca il progetto, se quindi c’è un deficit intellettuale nella capacità di programmazione e di previsione, capita quasi sempre che le risorse pubbliche si trasformino nella classica torta da distribuire in base ai canoni clientelari e che il denaro evapori senza produrre crescita e sviluppo. Il criterio adottato da tutte le parti in causa è quello del quieto vivere. I rappresentanti di categoria si affannano per rivendicare il diritto all’attribuzione dei fondi e le amministrazioni (o il Governo) si affannano per trovare i soldi, spesso solo sulla carta, e accontentare più soggetti possibili. Non c’è mai un indirizzo definito. Non esiste scelta politica se non quella della trattativa per l’elargizione. La giostra squallida che viene rappresentata è quella dei pesci grossi ai quali viene offerto un branco di acciughe per sfamarsi in fretta. Il quieto vivere raggiunto riguarda solo i piani alti. L’equilibrio da salvare si riassume nei rapporti tra i cosiddetti “rappresentanti”. I rappresentati, cioè la maggioranza dei cittadini, non entrano mai in gioco, al massimo saranno spettatori, a volte tifosi, che aspettano il prossimo annuncio con l’illusione di esserne in qualche modo parte. I rappresentanti nel frattempo hanno contrattato tra loro, perché una mano lava l’altra, basta che non siano troppe. Il futuro deve essere un affare per pochi. A tutti gli altri, ai rappresentati, basterà una promessa o una suggestione. Il disegno di una torta o anche solo la sua descrizione. Del resto fanno parte della categoria. SteP 29 agosto 2013
Le soluzioni esistono. Non nei poteri costituiti
Dalle stanze delle Istituzioni italiane ci arrivano rumori assordanti. Non si tratta di esplosioni né di tintinnii di sciabole. Sono rumori più vicini al fragore di un crollo e al trascinarsi di detriti. Rumori disordinati e carichi di angoscia, perché tra quei frammenti che ascoltiamo precipitare e rivoltarsi, ci sono i pezzi della nostra storia, delle radici a cui apparteniamo e di un sistema di valori su cui abbiamo, quasi tutti, costruito o anche soltanto progettato il nostro futuro. È ormai superfluo riaffermare il disprezzo per le classi dirigenti politiche. È uno sdegno entrato ormai nel DNA di un popolo intero, un dato scontato di cui, a questo punto, è inutile anche parlare. Milioni di Italiani vivono in una trincea fatta di precariato e di povertà. L’esasperazione corre lungo la Penisola e si manifesta, con sempre maggiore frequenza, nelle sue forme più violente e disperate. Dovevano arrivare risposte immediate e invece abbiamo ricevuto bugie o silenzi. Pretendevamo trasparenza e competenza e invece abbiamo solo assistito ai soliti giochi di potere, dai vecchi come dai “nuovi”. Un risiko estenuante mentre il Paese stava crollando. Questa Città e questa Regione non si distaccano dallo scenario italiano. Ne sono parte e in molti casi ne rappresentano l’emblema. Apparati tornati alla ribalta provano a ristabilire modelli di controllo che non hanno più nessun motivo di esistere e ancor meno possono garantire la svolta irrimandabile di cui c’è urgente bisogno. Si sente il fruscio della negoziazione con i gruppi dominanti e il sibilo del compromesso al ribasso. Il Lazio è un’immensa macchina in rovina e Roma è diventata una grande borgata. Chi aveva chiesto un approccio diverso nella programmazione non ha ottenuto risposta. Assessori e funzionari si nascondono in attesa di rimettere insieme gli ingranaggi fracassati che dovrebbero far ripartire la macchina. Provano a nascondere il dissesto finanziario per non dire che la prossima economia sarà di guerra. Ragionano sul bilancio e non affrontano la discussione sul sistema. Cercano la benzina per un motore che non può funzionare e che non funzionerà. Il nostro patrimonio umano, artistico e culturale resta schiacciato sotto il peso della burocrazia e delle beghe di partito. Mille vendette politiche alimentano il ricatto e l’autoreferenzialità e l’amministratore della cosa pubblica scompare perché paralizzato dalle lotte intestine o perché è un re con una corte già determinata. Dalla trincea è difficile accettare un simile teatrino, soprattutto se c’è tanto caldo e se non potrai permetterti nemmeno un giorno di vacanza. Non c’è più una torta da spartirsi e la posta in palio non è più la riconferma o la nomina. La sola alternativa che abbiamo davanti è quella che prevede la catastrofe o il riequilibrio sociale ed economico. Chi sta operando dalle stanze del potere nel rispetto dei codici distorti che ci hanno condotto al baratro, si troverà comunque a doverne rispondere. Il mondo al contrario non manda il sangue in testa solo ai poveri. Chi invece comprenderà che le risposte non sono quelle custodite sulle torri dorate e nei giardini dei potenti, ma appartengono all’impegno collettivo di tante donne e uomini che conoscono da vicino i problemi, riuscirà a introdurre criteri più efficaci su cui poggiare le nuove forme di sviluppo. Solo chi vive il problema ha premura di risolverlo e solo chi ci si confronta ogni giorno sa come affrontarlo. Può apparire questa un’affermazione demagogica, ma purtroppo le vicende che hanno segnato la storia dei nostri ultimi 30 anni ci mostrano che dall’alto sono arrivate quasi sempre disgrazie e al massimo un cestino di brioches. SteP 3 agosto 2013
Fine del minuetto
Desta molte perplessità il fatto che nel pieno di una crisi sistemica senza precedenti ci si perda nel solo ragionamento sulle risorse. Accade in molti settori della nostra società e le ristrettezze economiche non fanno altro che perpetrare il mantra dell’emergenza e dei tagli strutturali. È difficile smentire il fatto che in un sistema guasto, iniquo e moribondo, se anche si immettessero quantità infinite di capitali esse svanirebbero inesorabilmente, con il solo effetto di arricchire al massimo qualche potentato e aggravare l’ingiustizia sociale. Lo abbiamo visto con l’iniezione di denaro nella casse delle banche che ha soltanto rinviato il disastro. Da anni ascoltiamo le stravaganti ricette per uscire dalla crisi senza riuscire a osservare il minimo passo avanti. Da anni affidiamo il compito di elaborare il cambiamento a quelli che la crisi l’hanno creata e che hanno sguazzato allegramente nel brodo marcio in cui l’hanno cucinata. Succede nell’ambito della sanità così come in quello dell’ambiente (raccolta e smaltimento dei rifiuti, abusi edilizi, etc.). Si ripropone nella grande impresa e in quella piccola. Si presenta nell’iniziativa sociale e in quella culturale, producendo danni irreparabili in termini di ricerca, di conoscenza e di armonia collettiva. Le Istituzioni centrali e quelle locali recepiscono con estrema fatica l’urgenza di approcci innovativi e operano con grave lentezza, non tanto per i consueti ostacoli burocratici, quanto per il timore di infastidire gli assetti dominanti e per la propria incapacità di scelta e di decisione. Nel cinema e nell’audiovisivo assistiamo alla presa di posizione per la difesa del tax credit. Sono anni che questo strumento sembra essere il centro di ogni argomentazione ma in realtà è solo un evidente, piccolo marchingegno per tenere in vita una mummia. Le risposte giustamente pretese da un’amplissima parte degli operatori del settore, soprattutto i più giovani, riguardano una dimensione molto più concreta e complessiva sull’utilizzo di quelle scarse risorse che verranno trovate e sui criteri di accesso non solo ai finanziamenti ma a quel grande percorso intellettuale e culturale che può essere effettivo solo dopo aver restituito spazio alla sperimentazione, all’uso di nuove forme e linguaggi e all’ingresso di soggetti nuovi e propulsivi in un panorama ormai arido e chiuso in se stesso. Le minchiate sulla pirateria e sui modelli obsoleti non fanno più presa su nessuno e non sarà l’ennesimo appello al Governo e una nuova fase di falsa conflittualità a dare quella svolta che viene chiesta dalla maggioranza dei cineasti. Sarà bene non logorare ulteriormente un vasto universo di donne e uomini giunti all’esasperazione e sconcertati dalla incapacità delle classi dirigenti e delle componenti corporative. Questo monito non si riferisce solo al cinema ma a tutto il Paese. Servono misure strutturali e sistemiche che potranno anche disturbare qualche cupola ma che da subito diano la certezza che il minuetto demagogico dei vecchi baroni è stato finalmente sostituito da una visione in prospettiva che agisce per la risoluzione dei problemi che abbiamo di fronte. SteP 28 luglio 2013
Le idee e i progetti appartengono alla collettività
Il 16 luglio scorso è stato consegnato nelle mani del Ministro Massimo Bray il documento con la piattaforma di proposte provenienti dalla Rete. Da semplice portavoce ho comunicato l’importanza di garantire uno spazio di confronto tra Istituzioni e vertenze sviluppate dal basso in un clima di sana collaborazione tra tutte le parti. In quella occasione si è definitivamente chiusa una lunga fase di elaborazione e di condivisione incentrata su questa iniziativa. Il mio personale impegno in questa vertenza, fatto di comunicazione tra tutti noi, di aggiornamenti costanti e di dialogo con i rappresentanti istituzionali, si esaurisce qui. Come dissi circa 3 anni fa, il mio ruolo era circoscritto all’impegno intellettuale posto al servizio di un progetto collettivo e di un percorso comune e in nessun modo questa funzione può assumere una forma diversa di un’attività individuale messa a totale disposizione dell’interesse generale. Ho cercato di essere, come ho detto, un portavoce schietto nell’ambito di un processo partecipato e nella prospettiva di uno scenario caratterizzato da forti criticità in un sistema logoro e difettoso. Ringrazio i molti amici che mi hanno sostenuto con le numerose manifestazioni di sincera vicinanza che ho ricevuto. Amo il lavoro politico se è portato avanti con passione e senza nessun tipo di interesse personale. Ho amato questa battaglia che è arrivata a un punto di svolta. Mi sono sempre sentito una semplice prima linea che doveva portare a destinazione una testimonianza autentica di quel lavoro, non rappresentabile, che viene realizzato dal basso. Il messaggio che doveva arrivare al Ministro dei Beni e delle Attività culturali è stato recapitato. La Rete, i Firmatari e tutti coloro che in qualche modo hanno aderito a questa proposta sistemica possono essere oggi protagonisti di un confronto non rimandabile e lontano da talune contraddizioni provenienti dall’autoreferenzialità di certe figure, dalla demagogia di alcune componenti e dalle ambiguità dei gruppi dominanti. Le forme e le modalità di questo confronto potranno essere individuate all’interno della Rete con gli strumenti che fino a oggi si sono rivelati efficaci. I siti di riferimento sono a disposizione di tutti e la loro gestione può essere condivisa in modo da garantire continuità e precisione in ogni tipo di aggiornamento. Dal dialogo che si svilupperà potranno essere indicati gli eventuali rappresentanti e le figure che verranno ritenute idonee per portare a termine un percorso efficace e concreto, del tutto nuovo nel panorama della cinematografia italiana. Grazie ancora a tutti Un sincero abbraccio Stefano Pierpaoli