Marzo
Un giorno tutti quanti l’animali sottomessi ar lavoro,
decisero d’elegge un Presidente
che je guardasse l’interessi loro.
C’era la Società de li Majali, la Società der Toro,
er Circolo der Basto e de la Soma,
la Lega indipendente fra li Somari residenti a Roma;
e poi la Fratellanza de li Gatti soriani, de li Cani,
de li Cavalli senza vetturini,
la Lega fra le Vacche, Bovi e affini…
Tutti presero parte all’adunanza.
Un Somarello, che pe’ l’ambizzione de fasse elegge
s’era messo addosso la pelle d’un leone, disse:
“Bestie elettore, io so’ commosso:
la civirtà, la libbertà, er progresso…
ecco er vero programma che ciò io,
ch’è l’istesso der popolo! Per cui
voi voterete compatti er nome mio”
Defatti venne eletto proprio lui.
Er Somaro, contento, fece un rajo,
e solo allora er popolo bestione
s’accorse de lo sbajo
d’avé pijato un ciuccio p’un leone!
”Miffarolo! Imbrojone! Buvattaro!”
”Ho pijato possesso – disse allora er Somaro –
e nu’ la pianto nemmanco se morite d’accidente.
Peggio pe’ voi che me ciavete messo! Silenzio!
E adesso, rispettate er Presidente!
(Trilussa – 1930)
Qualcuno ha pensato a cosa accadrebbe se all’indomani delle elezioni ci svegliassimo con la vittoria di Mastella e della Santanchè? In fondo sono due candidati premier.
Tutto sommato si presentano con una lista e un simbolo tutto per loro. C’è da ritenere che i loro elettori credano nel successo del programma politico dei due leader. Quindi perché escludere questa ipotesi e dare del coglione a chi li voterà?
Potrebbero essere maggioranza e quindi regalare al Paese un Presidente del Consiglio del calibro della Briatore’s Angel e come suo vice il Ras di Ceppaloni.
Mi verrebbe da dire: cazzotto libero e tutti al Billionaire, tra cassonetti e paiette alla faccia di questa stucchevole disputa tra i profeti del facile sondaggio.
Pippo Baudo verrebbe inquisito per aver detto: «Allora scazzottiamoci, prendiamoci a pesci in faccia così fottiamo il pubblico e avremo un’Italia di merda»
Signor Pippo, il concetto è inoppugnabile ma troppo generoso: siamo già in un’Italia di merda.
Alla fine della de-generazione della politica c’è l’esibizione al Colosseo. Anche alla fine della perversione culturale e dello spettacolo c’è il Colosseo.
Una massa di spettatori ben manovrati da giullari, funzionari e imperatori e che aspettano il sangue dei cristiani.
Il fascino del circense è storia antica. Come quello del dittatore, del capopolo, del grande salvatore. Dell’unto, l’incensato, del bello, del ricco e del signore.
Da noi, oltre agli elencati che danni ne hanno fatti, esiste anche quello del calciatore, poco importa se semi-analfabeta e pagator di veline. Ar popolo jè serve.
Eppure arriva il tempo di guardarsi bene in faccia e accorgersi senza ipocrisie che al capolinea su cui indugiamo non passeranno torpedoni propizi.
Ce lo dice la sfrenata demagogia e il populismo a gogo con cui viene impostata questa tristissima campagna elettorale che porta verso il niente.
Lo trasmette la povertà da cui siamo attanagliati e le tante guerre tra poveri in cui ci annulliamo.
Eppure è ancora forte la tendenza ad oscillare tra una delega in bianco fatta al carovaniere di turno e la ridicola difesa del proprio spazietto di finta autonomia. Mille isolette aride che se ne stanno all’ombra di enormi promontori prepotenti, sperando, senza ammetterlo, di vedere un avanzo di successo rotolargli nel piatto o nella testa.
Mille isolette alla mercè dei boss criminali, gonfie della loro stessa immondizia ed elettrìci o tifose dello stendardo al quale riferirsi. Berluschini, veltruschini, girotondini, grillini, muccini. Niente di più. Niente di meglio. Il family day, il vaffanculo day, il democratic day, il monnezza day. Niente di più e niente di meglio. Proclami, promesse e aggressioni.
Diventa quindi chiara l’equazione che consente al potente di turno di beffare la GGGGente (come la chiamano loro), accaparrare consenso e poi disprezzare la popolazione, riconoscendola gretta, ipocrita e conformista. Quello che in verità molto spesso sembrerebbe essere (ma diciamolo a bassa voce).
A poco serve la piazza, strumento che soprattutto negli ultimi anni si è rivelato congegno di consenso facile da manipolare, e ad ancor meno servono l’urlo feroce e l’invettiva privi di proposta e di costruzione. Privi cioè del supporto intellettuale indispensabile affinché uno o più aggregati sociali acquistino indipendenza dai simboli e dalle suggestioni di facile presa.
Indipendenza, in questo tempo, è sinonimo di cooperazione tra individui, perché solo grazie ad essa si conquista peso e spessore, capacità decisionale e democratica. Andare dietro al capo e rimanere isole, impoverisce le ragioni del capo (qualora ce ne fossero) e annienta quelle delle isole.
Non servono 500.000 persone in piazza. La piazza è ormai una categoria del passato. Priva di rappresentanza e senza più riferimenti.
Sarebbe il tempo di ricominciare a fare politica perché questa assenza la pagheremo molto cara.
Stefano Pierpaoli
Marzo 2008